Azzurro. Come il cielo, come il mare, come il fiocco per la nascita di un maschietto. Come il colore delle magliette indossate dagli atleti di ogni disciplina sportiva che gareggiano per l’Italia. C’è anche chi non si lascia commuovere (in nome di chissà quale recondita e ingiustificata ritrosia), ma la stragrande maggioranza del popolo italico adora quel colore: lo ama a prescindere. I recentissimi exploit agli Europei di atletica leggera (medagliere ricchissimo, mai accaduto in passato) sono stati l’antipasto della competizione continentale calcistica alla quale la squadra guidata da Spalletti arriva da campione in carica in virtù dell’inaspettato successo conquistato a Londra nel 2021 dal team all’epoca allenato da Mancini, ora approdato alla faraonica corte araba dove lo hanno ricoperto da una valanga di milioni. Buon per lui…
Insomma, l’azzurro è il colore che più piace e appassiona gli sportivi (e non solo). Ma come mai fu scelto visto che non ha alcun riferimento con la bandiera? Bisogna tornare indietro di 114 anni e fare riferimento ad una delle prime gare ufficiali della Nazionale di calcio che aveva esordito con una trasferta in Ungheria, fatta in treno, in terza classe e con pochissimi generi di conforto nella valigia rigorosamente di cartone. Il match di ritorno fu l’occasione per passare appunto all’azzurro e fu un tributo ai Savoia, casa regnante all’epoca. Omaggio che si sarebbe esteso rapidamente a tutte le altre discipline sportive. Fu scelta come tonalità di azzurro quella dello scudo sabaudo presente sul pavimento della galleria Vittorio Emanuele II a Milano.
Nel 1928, alle Olimpiadi di Amsterdam, il primo titolo importante: la medaglia di bronzo. Prologo allo straordinario quadriennio 1934-1938 che vide gli azzurri trionfare due volte ai campionati del mondo, disputati prima in Italia e poi in Francia. Il commissario tecnico era Vittorio Pozzo, un giornalista profondo conoscitore del calcio di quei tempi. Con lui uno stuolo di straordinari campioni: da Meazza (il Balilla) a Ferrari, da Orsi a Schiavio, da Piola a Colaussi. In quegli anni arrivarono anche due titoli europei (nel 1930 e nel 1935) e il titolo olimpico alle Olimpiadi di Berlino nel 1936, quelle di Jesse Owens sotto gli occhi di un indispettito Hitler, ma anche quelle di Primo Carnera (che scaricava gragnuole di pugni sul ring) e di Ondina Valla (che volteggiava sugli ostacoli delle piste di atletica leggera). Il fascismo tentò di mettere il cappello su quei successi, in qualche circostanza obbligò la squadra a scendere in campo con la maglia nera e impose il saluto romano prima del fischio d’inizio. Sostanzialmente folklore di una dittatura che amava crogiolarsi nelle vittorie sportive per nascondere i tanti fallimenti economici e sociali.
Dopo i lutti e le devastazioni del conflitto mondiale, mentre il Paese tentava faticosamente di rialzarsi, spuntò un fiore fulgido: il leggendario Grande Torino, guidato dal suo capitano Valentino Mazzola. Un autentico squadrone che faceva tremare il mondo e che era il serbatoio praticamente unico della Nazionale. Nel maggio 1947 contro l’Ungheria (3-2 per gli azzurri), escluso il portiere juventino Sentimenti, il resto dell’undici era tutto granata. Appena due anni dopo, quella meravigliosa squadra morì a Superga. Per un intero anno la Nazionale giocò col lutto al braccio: il pezzo di stoffa nera fu addirittura cucito sulle casacche. Le ripercussioni furono nefaste anche sul piano sportivo: nel 1954, ai Mondiali in Svizzera, Italia fuori al primo turno e quattro anni dopo non qualificata alla competizione che si disputava in Svezia (nel Brasile giocava già un giovanissimo Pelé). Anche nel Mondiale 1962 in Cile esclusi al primo turno, umiliati e picchiati dai padroni di casa.
Nel 1966, in Inghilterra, l’onta più grande subita dal calcio azzurro. Nel girone di qualificazione c’era anche la Corea del Nord, definita dagli osservatori “una squadra di Ridolini”. In panchina sedeva Edmondo Fabbri che s’era fatto un nome portando il Mantova dalla serie D alla serie A. Oddio, non è che tutti lo tenessero in particolare considerazione. Un altro allenatore dell’epoca, Oronzo Pugliese (originario di Turi, nel Barese), lo considerava poco più di un cialtrone. I due si detestavano profondamente, tanto che quando si incrociavano in campo Mondino si rivolgeva al collega chiamandolo “terùn” e il mago di Turi gli ribatteva “strunz”. La traduzione è superflua… Come che sia, si arriva alla partita contro i coreani convinti di fare un sol boccone di quella banda di Ridolini (un comico dei primi del secolo) e invece un signore di nome Pak Doo-it (che nella vita faceva il dentista) infilza il portiere Albertosi e ci rimanda a casa. Lutto nazionale e valanga di improperi su calciatori e soprattutto su Fabbri costretto a rifugiarsi in un convento per sottrarsi ad un linciaggio che non era soltanto morale. E molto probabilmente don Oronzo sarebbe stato in prima fila.
Per fortuna 4 anni dopo in Messico arriva la redenzione. La semifinale con la Germania vinta 4-3 ai supplementari è stata definita la più bella partita del secolo scorso, ma toglie una quantità enorme di energie e dunque alla finale col Brasile si arriva più che spremuti. Al vantaggio di Pelè, risponde quasi subito “Bonimba” Boninsegna, ma è solo un’illusione. I carioca dilagano nella ripresa e vincono 4-1. Al ritorno, a Fiumicino, gli azzurri sono accolti da fischi e da un fitto lancio di pomodori. Criticatissimo il Ct Valcareggi, accusato di non aver fatto giocare Rivera e di avergli preferito Sandro Mazzola, figlio del capitano del Torino. A proposito, anche nel ’94, Mondiali in Usa, arriviamo in finale e troviamo il Brasile che vince nuovamente, stavolta ai calci di rigore. Salto in avanti ai Mondiali in Argentina del 1978: l’Italia, guidata da Enzo Bearzot, gioca un calcio splendido e mette le basi per il trionfo in Spagna di quattro anni dopo. La pipa del presidente Pertini e dello stesso Bearzot, la corsa sfrenata di Tardelli, l’urlo di Martellini in tv (“Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo”) e soprattutto i gol di Paolo “Pablito” Rossi, Una gioia provata nuovamente nel 2006 quando l’Italia di Marcello Lippi prima sbatte fuori in semifinale i tedeschi, padroni di casa, e poi sconfigge ai rigori la Francia: quello decisivo lo segna un terzino, Fabio Grosso.
Passo indietro per un’altra grande delusione. Il Mondiale del ’90 si gioca in casa e, inutile dirlo, gli azzurri sono i grandi favoriti. Per le strade aleggiano le “Notti magiche” di Gianna Nannini e Edoardo Bennato, subito ribattezzate “notti madide” perché faceva caldissimo anche allora senza bisogno degli anti-cicloni Minosse, Caronte, Lucifero… Il centravanti di quella Nazionale è un ragazzotto siciliano, Totò Schillaci, che azzecca il mese più importante della sua vita: segna a raffica, praticamente metterebbe il pallone in porta anche se lo bendassero. Cammino trionfale fino alla semifinale che, per il gioco degli accoppiamenti, si disputa a Napoli contro l’Argentina nello stadio San Paolo, il tempio dove regnava incontrastato Diego Armando Maradona, capitano della Nazionale albiceleste e dello stesso Napoli (al quale aveva già regalato il primo storico scudetto). Segna quasi subito Schillaci (manco a dirlo), nella ripresa Zenga sfarfalleggia in uscita e Caniggia pareggia di testa. Si va ai rigori, passano loro. Nella successiva finale di Roma, lo stadio fischia codardamente l’inno argentino a Maradona mormora a mezza bocca in mondovisione: “Hijos de puta” (figli di… e anche stavolta il resto della traduzione è superfluo). Per la cronaca, il titolo andò alla Germania.
Il resto è storia recente: per l’Italia due esclusioni consecutive dalle fasi finali dei Campionati del Mondo: Russia 2018 con Ventura in panchina (subito ribattezzato con una “s” davanti al cognome) e Qatar 2022 quando in panca c’è Mancini. In mezzo l’insperato successo agli Europei 2021 con i rigori che, nel tempio laico di Wembley, condannano i padroni di casa dell’Inghilterra. Da ricordare soprattutto le parate di Donnarumma, il gesto di Bonucci che invita i tifosi della perfida Albione a “sciacquarsi la bocca” e l’abbraccio in lacrime tra Mancini e Vialli, che morirà pochi mesi dopo. E in questi giorni siamo ancora (quasi) tutti lì ad urlare Forza Azzurri. Meglio evitare di aggiungere al forza il nome del nostro Paese, perché si corre il rischio di fare propoganda elettorale…
Buona domenica.
Nell’immagine di copertina, una delle prime partite giocate dall’Italia con la maglia azzurra
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