PERUGIA – Augusto Renzini (22.4.1898-24.3.1944) era figlio di contadini. Il padre si chiamava Vincenzo, la madre Marianna Buratti. Prima che gli arrivasse la cartolina precetto, Augusto lavorava nei campi con i suoi. Ma la guerra aveva fame di giovani e lui dovette partire, come tanti altri, per il fronte austro-ungarico. Fu tra i fortunati: scampò alla morte che tante vite si portò via tra il 1915 ed il 1918. E prima di tornare a casa sottoscrisse un periodo di ferma con l’Arma dei Carabinieri. Tra il 1920 ed il 1923 svolse la sua attività nella capitale. Quindi se ne tornò al lavoro nei campi nel paese natìo. Venne richiamato alle armi nel 1941. Ancora a Roma e di nuovo con la divisa dell’Arma Benemerita. Poco dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Renzini si diede alla macchia, militando nel gruppo (per i tedeschi “banditen”) del generale dei carabinieri Filippo Caruso, formata, quasi esclusivamente da uomini delle “fiamme d’argento”, che avevano giurato fedeltà al Re.
In una perquisizione effettuata dai nazifascisti nella sua abitazione – in via Prenestina, 149 – saltarono fuori delle armi e il militare – che era stato, per le sue qualità, a capo di una squadra – fu trascinato nella famigerata prigione di via Tasso, in cui venne sottoposto ad atroci, barbare torture. Alle quali resistette, con ferma determinazione. Il suo nome venne inserito, poche ore dopo l’attentato di via Rasella (messo a segno dai gappisti della Resistenza contro le SS alto-atesine, tra le quali si contarono 32 morti), nella “Lista Kappler”. Herbert Klapper, per buona ricordanza. E così Augusto Renzini finì fucilato nella cava di pozzolana, nota come eccidio delle Fosse Ardeatine. Gli venne attribuita la medaglia d’oro al valor militare, per la sua attività nella Resistenza, mentre Nocera Umbra gli ha dedicato la locale caserma carabinieri.
Augusto Renzini è una delle 335 vittime della feroce follia nazifascista (Adolfo Hitler aveva ordinato che venissero uccisi 50 italiani per ogni SS morta in via Rasella, poi si scese, bontà loro, al rapporto di 1 a 10). Gli ultimi cinque fucilati vennero conteggiati “per errore”. Meglio sbagliare per eccesso che per difetto, avranno pensato gli autori del massacro. A questa agghiacciante contabilità di morte va aggiunta anche una sfortunata contadina sfollata da Gaeta, che quel tragico giorno stava raccogliendo cicoria a pochi metri dalla cava. Si chiamava Fedele Rasa e venne ammazzata (si potrebbe definire un “danno collaterale”) sul posto, perché aveva assistito all’arrivo dei camion con le vittime predestinate e la strage doveva rimanere segreta, in quanto gli stessi nazifascisti – consci dell’enorme crudeltà che stavano consumando – temevano una sollevazione popolare.
Proprio in questi giorni, in concomitanza dell’ottantesimo anniversario dell’eccidio, è stato pubblicato un libro dal titolo “lLe vite spezzate delle Fosse Ardeatine, simbolo della Resistenza” degli storici Mario Avagliano e Marco Palmieri (editore Einaudi). Nella carneficina, feroce ed inumana (le vittime entravano cinque alla volta, scaricate dai camion sul piazzale della cava, freddate da militi e finiti con un colpo di grazia da graduati o ufficiali) vennero uccisi contadini, commercianti, artigiani, ambulanti, impiegati, militari, ingegneri, industriali. Analfabeti ed intellettuali. Civili cui nulla si poteva imputare, militari e antifascisti. Cattolici, ebrei, atei. Tutti uomini dai 15 anni (tanti ne avevano Duilio Cibei e Marco di Veroli) ai 74 anni. Ed il sangue versato dai martiri proveniva, praticamente, da tutta Italia: il numero maggiore dal Lazio (119), ma pure dalla Campania (19) dalla Sicilia (18), dalla Puglia (13), dall’Emilia-Romagna (9), dalle Marche (9), dalla Sardegna (9), dall’Abruzzo (8), dalla Calabria (4), dalla Lombardia (4), dall’Umbria (4), dal Piemonte (3), dalla Basilicata (1), dal Friuli Venezia Giulia (1). Il numero delle vittime era completato da 6 italiani nati all’estero (in Austria, in Egitto, in Francia, in Libia, in Lussemburgo, in Turchia) e da 9 stranieri (3 polacchi, 2 tedeschi, 2 austriaci, 1 sovietico, 1 ungherese).
È anche col sangue di questi martiri – mai dimenticarli – che l’Italia si è riscattata e che, negli ultimi 80 anni, ha goduto della libertà, goduta da tutti noi, “ch’è sì cara – cantava Dante – come sa chi per lei vita rifiuta”.
Elio Clero Bertoldi
Lascia un commento