PALERMO – Il libro della dottoressa Paola Argentino La spiritualità è cura: la forza dell’amore nel dolore (Mondadori, Milano, 2023) che, come esplicita il sottotitolo, è un ‘Manuale di Psico-Oncologia e Psicologia sanitaria gestaltica’, per la sua complessità e specificità non è facile da sintetizzare. Poiché il testo è anche un originale e poliedrico ‘libro matrioska’, fruibile a vari livelli anche dai non addetti ai lavori, la scrivente tenterà di offrire un assaggio di tanta ricchezza.
Intanto, come manuale di psico-oncologia, il libro si occupa della morte e del morire, con connotazioni di grande risonanza esistenziale che rimandano al senso e al mistero di questo passaggio ‘limite’ dell’esistenza; passaggio che, per il filosofo Hans Jonas si configura come «impulso a contare i nostri giorni e a viverli in modo che essi contino per se stessi». Come sottolineato dallo psicoterapeuta Giovanni Salonia nella prefazione, cuore di questo saggio è la cura “declinata come profonda compassione nei confronti di ogni vivente e di ogni dolore… filo d’oro che cuce la ricchezza dispiegata nel testo”.
Ma cosa s’intende per cura? L’autrice (medico psichiatra e psicoterapeuta, co-direttore di Master in Psico-Oncologia e in Psico-Neuro-Endocrino-Immunologia e Neuroscienze) ricorda innanzitutto, sulle orme dell’antropologa Margaret Mead, che prendersi cura è fondamentale per la sopravvivenza nelle situazioni di fragilità e che quindi “prendersi cura dei più deboli è segno di civiltà”; ed evidenzia poi il salto culturale e scientifico odierno dovuto a un cambiamento di paradigma: dal concetto di ‘cura di’ (to cure), si è passati a quello più organico del ‘prendersi cura’ (to care), per approdare infine alla completezza della ‘spiritualità della cura’ (spirituale care). Spiritualità da intendersi però non come somma di credenze e pratiche religiose ma “come relazione di cura: totalità esistenziale che dona pienezza di vita al paziente, ai familiari, ai curanti e in definitiva all’intero universo”.
L’autrice chiarisce infatti che “la spiritualità nel prendersi cura risponde alle domande filosofiche esistenziali sul senso della vita e della morte, in sintonia con le ricerche di neuroscienze che dimostrano come la relazione di aiuto è inscritta nell’intercorporeità umana”, superando così il dualismo mente-corpo, il conflitto tra spiritualisti e materialisti. Per cui “la sacralità del ‘prendersi cura’ non è soltanto la dimensione dell’atto medico/terapeutico legato alle situazioni di emergenza clinica o di cronicità: il ‘prendersi cura’ è la radice primaria dell’essere umano ed è, per questo, sacro”.
La cura, così intesa, implica dunque per il personale sanitario l’importanza di ‘stare dentro il dolore’ dei pazienti e dei loro familiari e diventa un punto di forza delle cure palliative: “Il compito dello psico-oncologo è essenzialmente etico e relazionale: sanare la frattura tra l’indicibile e l’inudibile”. Perché “non esistono malati incurabili, semmai malattie inguaribili, in quanto la cura è possibile sempre accanto, ovvero ‘presso’ la persona sofferente: assunto alla base delle cure palliative”. Si scopre allora che la medicina palliativa rimanda a pallium, il mantello che diventa simbolo del prendersi cura “perché metaforicamente vuole essere una cura che riscalda, abbraccia, avvolge come un mantello, che dona, oltre la prossimità compassionevole, quella speranza (…) che deve poter appartenere ad ogni essere umano, per potere affrontare fino all’ultimo respiro la malattia. Per questo san Martino, con il suo mantello tagliato e donato, è diventato il simbolo delle cure palliative”. A tal proposito viene citato il professore Erminio Gius “che individua nella compassione la possibilità di una carta etica ideale mondiale che regoli i rapporti interpersonali e teorizza la compassione come terapia o come aiuto terapeutico”.
Il secondo capitolo introduce alle potenzialità umane e terapeutiche della psicologia della Gestalt; mentre il terzo, un vero e proprio trattato di psicologia sanitaria, traccia il percorso per un superamento del modello teorizzato dalla dottoressa Kübler-Ross, secondo cui i malati gravi attraversano cinque fasi (rifiuto, rabbia, patteggiamento, depressione, accettazione/rassegnazione) prima di approdare all’accettazione rassegnata del morire. La dottoressa Argentino afferma invece che “nella prospettiva psico-oncologica gestaltica (…), l’ultima fase non consiste nell’accettazione della propria morte, ma nel raggiungere l’integrità e la pienezza di vita”. A sostegno di tale prospettiva, l’autrice offre pagine assai dense e testimonianze toccanti, legate dal filo prezioso della sua personale esperienza in quest’ambito così delicato.
Il quarto capitolo ripropone personaggi e miti della classicità greca, filtrati attraverso la sensibilità e la competenza terapeutica dell’autrice. Ritroviamo Antigone che afferma il primato della legge interiore della cura filiale e chiede il rito funebre per il fratello; Atlante, personaggio vicino a chi, come il personale sanitario, si fa carico dei problemi degli esseri umani; ritroviamo Chirone, il ‘guaritore ferito’ che “prima di prendersi cura degli altri, deve curare la sua ferita e medicarla. Allo stesso modo, tutti gli operatori sanitari per comprendere il dolore degli altri e averne cura, è necessario che prima di tutto siano consapevoli delle proprie fragilità. (…) Un buon medico è una persona ferita, che è entrata in contatto con la propria sofferenza e che l’ha affrontata, l’ha resa parte di sé, e da questa ferita ha trovato la via per prendere contatto con le ferite altrui”; rileggiamo poi in modo nuovo il mito di Sisifo, costretto a spingere per sempre un macigno dalla terra alla cima della montagna, da dove ricade a valle: “Sisifo rappresenta l’umanità che è sempre in un cammino in salita e in discesa (…) nonostante il macigno che ognuno di noi, tra le mille avversità della vita, continua, malgrado tutto a spingere”.
E dopo aver ribadito l’importanza della ‘medicina narrativa’ perché «tutti i dolori sono sopportabili se trasformati in racconto», ci viene presentata la viriditas, la forza vitale che, secondo Ildegarda da Bingen (monaca benedettina vissuta nel XIII secolo) è presente sia in Natura che negli esseri viventi e consente di riacquistare salute e armonia. Infine, queste parole nutrienti sulla speranza: “Si è soliti dire ‘finché c’è vita, c’è speranza’, e realmente la speranza è un sostanziale aiuto all’esistenza umana… Nell’ambito della psicologia sanitaria, potremmo dire che si opera un capovolgimento dei termini: finché c’è speranza, c’è vita.”
E la splendida chiusa con una poesia di Emily Dickinson: «Se io potrò impedire/a un cuore di spezzarsi/non avrò vissuto invano. Se allevierò il dolore di una vita/ o guarirò una pena/ o aiuterò un pettirosso caduto/a rientrare nel nido/non avrò vissuto invano».
Maria D’Asaro
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