NAPOLI – È da molti anni ormai che la realtà del Banco Alimentare è presente anche a Napoli. I turni per caricare gli alimenti a Pontecagnano (vicino Salerno) e per consegnarli in maniera capillare alle famiglie sono continui. Ci si organizza per incontrare chi è in difficoltà, per rispondere, soprattutto a noi stessi, ad una domanda per esserci. Essere nella realtà, attivi, in moto per non cadere vittime di isolamenti di mente e di cuore, di tempi e di spazi.
Su sollecitazione dei colleghi della scuola dove chi scrive insegna, nel centro storico di Napoli, si è pensato di venire incontro alle difficoltà di famiglie della scuola stessa. Famiglie dove c’è chi lavora in nero, chi ha bancarelle per la vendita ambulante, chi racimola qualche spicciolo consegnando le buste della spesa ai clienti del supermercato. Di fronte a queste situazioni non c’è tempo per pensare alla legalità o meno di certe azioni. Ora queste famiglie chiedono da mangiare e a questo bisogna necessariamente rispondere. Con Padre Antonio Puca si è aperto un nuovo punto di distribuzione nella Chiesa del Divino Amore a S. Biagio dei Librai; con Valerio, Peppe, Eugenio, Alfonso, Mario, Fabio, Antonio, e tanti ragazzi di GS (Gioventù Studentesca) ci si ritrova il sabato nella sede di via Trinchera per preparare le buste e consegnarle.
Nel tempo è cresciuto un rapporto, una familiarità tra noi e con loro. Una rete di solidarietà fitta, forse solita per chi non la fa, scontata, ma che ogni volta, è fonte di benessere. Di fronte alle lacrime di gioia di Rosaria che ha da poco perso il marito o di Maria con cinque figli (l’ultimo con sindrome di Down) e con un marito parcheggiatore, si consolida la percezione di una preferenza per un bene in essere e così, ogni gesto si riempie di senso. Negli ultimi mesi è nato un bel rapporto con le suore che prestano servizio presso il Dormitorio pubblico. Una di loro confessa: “Il Comune di Napoli fa tanto consegnando i pasti, ma tutto ciò non basta a tener vivi i cuori di queste persone, occorre uno sguardo diverso, più vero, un piatto meno ‘plastificato’ di quelli che consegnano quotidianamente”. E allora, a completamento del cibo dato dalla mensa comunale, ci si aggiunge qualche condimento in più per rendere più saporito il cibo.
A guardarci ciò che colpisce è la volontà di ritrovarsi, di conoscersi, di condividere il gesto in maniera straordinariamente semplice. C’è tanta buona volontà nel mettersi a disposizione e ciò che resta, alla fine, come è giusto che sia, è un rapporto umano, un’amicizia tra chi “sacrifica” (cioè letteralmente “rende sacro”) quel pezzo della sua giornata o della sua vita. Ci si ritrova uniti dallo stesso intento di fare del bene, ma neanche questo basta. Troppo spesso chiusi nei problemi quotidiani, ci si dimentica non degli altri ma di noi.
Si riesce spesso ad essere dei grandi professionisti del “donare”; c’è chi si lascia talmente prendere da tali attività “elargitorie” che neanche se ne accorge del bene che sta facendo, che neanche ne gode. Riempiamo ogni momento del nostro tempo attraverso iniziative, uscite, visite, attività culturali di ogni genere dimenticandoci del bene più importante che cerchiamo e cioè di un amore e di uno sguardo verso noi stessi. È l’attenzione che vorremmo noi, è l’interesse che vorremmo noi ogni giorno e che tante volte mascheriamo donandoci, dando del tempo ignari del fatto che è su di noi che proiettiamo questo desiderio di bene. Ogni uomo attende uno sguardo. È così vero che se all’improvviso uno sguardo, un volto, una chiacchierata pone al centro il nostro io, allora la nostra persona balza di entusiasmo, di umanità, sobbalza di amor proprio cioè dell’amore verso noi stessi che scaturisce solo se siamo guardati nel fondo delle nostre esigenze.
Questa coscienza, questo desiderio di bene, solo questo, genera la passione a lavorare costruttivamente in ogni ambito della realtà e della vita sociale. Scrive don Giussani ne “Il senso della caritativa”: «Quando c’è qualcosa di bello in noi, ci sentiamo spinti a comunicarlo agli altri. Quando si vedono altri che stanno peggio di noi, ci sentiamo spinti ad aiutarli in qualcosa di nostro. Tale esigenza è talmente originale, talmente naturale, che è in noi prima ancora che ne siamo coscienti e noi la chiamiamo giustamente legge dell’esistenza. La legge suprema, cioè, del nostro essere è condividere l’essere degli altri, è mettere in comune se stessi. Tutta la parola “carità” riesco a spiegarmela quando penso che il Figlio di Dio, amandoci, non ci ha mandato le sue ricchezze come avrebbe potuto fare, rivoluzionando la nostra situazione, ma si è fatto misero come noi, ha “condiviso” la nostra nullità».
Questo ci aiuta a capire meglio anche il perché di uno spendersi per l’altro, il motivo dell’essere costitutivamente protesi al bene.
Innocenzo Calzone
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