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La dignità del lavoro nelle opere di Millet

di | 2023-11-09T20:08:59+01:00 12-11-2023 5:30|Arte, Sezione 7|0 Commenti

NAPOLI – Saranno cambiati i tempi, saranno cambiati la forma e il modo di vivere, sarà cambiato il modo di essere, di lavorare, di porsi nel lavoro. Alla domanda “come stai?”, è inevitabile che si ponga come prima risposta il lavoro, stranamente però non come riflesso di una condizione esistenziale quanto per un riflesso immediato legato all’aspetto economico e non altro. Lavoro per reggere una famiglia, lavoro per un tenore di vita migliore. Non c’è che dire. Eppure, i tempi non sono stati sempre gli stessi. Ci sono stati tempi in cui al lavoro si dava una giusta considerazione legata inesorabilmente al rendere onore e gloria (una sorta di ringraziamento) a chi aveva reso possibile tutto ciò. Un degno valore non solo per il riconoscimento economico che ne derivava ma anche perché attraverso di esso l’uomo, uomo o donna che sia, aveva, ha la possibilità di realizzare la propria persona, il proprio essere, la propria vita.

Di sicuro oggi tutto questo è andato scemando addirittura facendo ricorso non tanto al dovere quanto ai diritti sindacali, sacrosanti ci mancherebbe, ma privi del dovuto spessore esistenziale. Nella storia ci sono stati tanti personaggi, poeti o artisti, che hanno illuminato la strada ma non a tal punto da bastare a rendere chiaro ciò che un tempo dava dignità al seppur banale scopo del lavoro in sé. Uno dei personaggi che più hanno saputo esprimere nell’arte questo nesso lavoro-scopo-senso è stato Francois Millet, artista di metà Ottocento, padre spirituale di Vincent Van Gogh, altro instancabile uomo che sul lavoro aveva le idee ben chiare. Quando uno lavora che coscienza ha di sé? Cosa vuol dire essere un lavoratore? Millet, di famiglia contadina, si convinse da subito che la sua strada artistica era legata alla rappresentazione di scene di vita rurale che seppe ritrarre con una nobiltà e una solennità fino ad allora ignote.

Jean-Francois Millet trova la sua vocazione nella pittura dove ritrae fondamentalmente uomini al lavoro. “Voglio cimentarmi con temi diversi da quelli mitologici: è il lato umano, schiettamente umano che mi tocca di più”. E ancora: “Mangerai il pane con il sudore della tua fronte. E’ questo il lavoro allegro, piacevole al quale alcune persone vorrebbero farci credere? Malgrado tutto, è lì che secondo me, si trova la vera umanità, la grande poesia”. Nelle scene raffigurate c’è qualcosa di eterno, nell’istante più banale, qualcosa di grande nei gesti degli umili contadini. “E’ il lato umano, schiettamente umano quello che in arte mi tocca di più; nel disegno non farò nulla che non sia il risultato di impressioni ricevute dall’aspetto della natura, sia esso paesaggi o figure. E non è mai il lato gioioso quello che mi appare. Ciò che di più allegro conosco è questa calma, questo silenzio di cui si gioisce così intimamente nel bosco o nei campi arati”.

Il lavoro deriva dal fatto che l’uomo è simile a Dio: come il padre è l’eterno lavoratore così l’uomo è il lavoratore. La bellezza, il senso di una cosa la percepisci meglio se è ottenuta con fatica, la conquista è tanto più valorosa, più intensa quanto più è dura la strada per arrivarci (vallo a dire ai nostri figli). Gesù nel Vangelo dà questa definizione di Dio: Mio Padre è l’eterno lavoratore! Con questa affermazione indica il lavoro come espressione dell’essere. Anche per noi il lavoro è l’espressione del nostro essere? Solo questa coscienza può dare veramente respiro all’operaio che per otto ore fatica sul banco di lavoro, come all’imprenditore, come al contadino che si alza alle cinque del mattino per arare i campi. Si lavora con dignità, con onore, assoluto. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta. Era naturale. Il campo doveva essere coltivato e arato bene. Non per il salario, non per il padrone. Doveva essere fatto bene di per sé. Secondo lo stesso principio delle cattedrali. Non si trattava di essere visti o di non essere visti. Era il lavoro in sé che doveva essere ben fatto.

Tutto era un elevarsi interiore e un pregare tutto il giorno (se trovo coscienza in ciò che faccio ma non per ciò che faccio ma per la coscienza che ho di me in ciò che faccio, allora lavoro con gioia!) tutto un altro senso rispetto a chi, oggi, “lavora” unicamente per dare volto e luce a se stesso e basta. Il selfie è l’immagine più torbida di tutta la faccenda contemporanea: esisto per me, basto a me stesso. Tutto il resto, i colleghi, gli amici, il significato di ciò che faccio non conta più. Il mio mondo, i miei diritti e guai a chi me li tocca. Sindacalismo estremo privo di qualsiasi nesso con l’altro. “Perché mai il lavoro di un piantatore di fagioli dovrebbe essere meno interessante o meno nobile di qualsiasi altra attività? Si dovrebbe riconoscere che la nobiltà o la bassezza risiede nel modo in cui tali cose vengono comprese o rappresentate, non nelle cose in sé”.

Millet dipinse più volte madri che insegnano a leggere o a lavorare ai bambini: il compito materno non si limita alla cura del corpo, ma si compie nell’educare, nell’introdurre i figli alla vita e al lavoro. Don Giussani sottolinea che il lavoro vissuto come scopo sociale non esaurisce la totalità dei fattori in gioco. Anche il lavoro deve servire ad essere funzione della verità e della felicità cui l’uomo personalmente aspira. Lo scopo del lavoro non può essere il lavoro stesso ma l’uomo.

Innocenzo Calzone

Giornalista pubblicista, architetto e insegnante di Arte e Immagine alla Scuola Secondaria di I grado presso l’Istituto Comprensivo “A. Ristori” di Napoli. Ha condotto per più di 13 anni il giornale d’Istituto “Ristoriamoci”. Partecipa e promuove attività culturali con l’associazione “Giovanni Marco Calzone” organizzando incontri e iniziative a carattere sociale e di solidarietà. Svolge attività di volontariato nel centro storico di Napoli con attività di doposcuola per ragazzi bisognosi; collabora con il Banco Alimentare per sostenere famiglie in difficoltà. Appassionato di arte, calcio e musica rock.

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