PERUGIA – Nella tarda serata del 10 settembre 1600, a Roma, il ricco ed influente Marco Antonio Florenzi, 67 anni, stava rientrando nel suo palazzo, costruito pochi anni prima dove ora insiste Largo Magnanapoli, a pochi passi dal Quirinale, all’epoca reggia Papale, quando venne assalito e ucciso a pugnalate – proprio come Giulio Cesare – da un gruppo di assassini. Le indagini partirono immediatamente perché la vittima era un uomo di primo piano, che era stato al servizio di ben quattro papi. Ma nessuno scoprí mai né gli autori del brutale omicidio, né le cause che lo determinarono.
Marco Antonio Florenzi, cittadino perugino dal 1566 e nobile per nomina del senato romano dal 1568, era nato a Sant’Arcangelo di Magione, da un contadino del Lago, Fiorenzo. Da cosa era stata determinata la sua rapida e irresistibile scalata sociale in Perugia e addirittura a Roma? Lo storico Gianfranco Cialini, autore di una approfondita e interessante ricerca, sull’origine e la storia di questa famiglia, non crede per nulla a quanto scrivono Giuseppe Marinelli e don Giuseppe Dogana, secondo cui Fiorenzo dette ricovero, durante un violento acquazzone, ad un frate domenicano inquisitore, Michele Ghislieri, che lasciando l’abitazione promise al contadino: “Se mi faranno papa mi ricorderò di te e ti ricompenserò”.
Frate Michele venne creato cardinale nel 1557 e pontefice (Pio V) nel 1566. Subito dopo la sua elezione il nuovo papa chiamò Fiorenzo e gli chiese: “Preferisci la terra o l’acqua?”. Il furbo contadino rispose: “L’una e l’altra”. Così ottenne in enfiteusi perpetua prima e in proprietà piena poi gran parte delle “pedate” del Lago, cioè le terre demaniali a sud del Trasimeno fino a Passignano. Un bel regalo, certo, ma poteva soltanto questo dono far salire così in alto i Florenzi? L’elemento più importante della scalata sociale della famiglia, fu la chiamata a Roma, da parte di Pio V (il pontefice della vittoria di Lepanto sugli Ottimani) del figlio di Fiorenzo e di Camilla di Castiglion Fosco, Marco Antonio, che aveva 33 anni e che divenne cubicolario (segretario particolare) del papa. E rimase nella Curia Romana sotto quattro pontefici.
Perché il figlio di un’anonima coppia di contadini aveva studiato e si era imposto tanto da essere stato chiamato ad un incarico così delicato? Cialini non lascia la domanda a mezz’aria e scrive che potrebbe esserci stata una “parentela” di mezzo. Non aggiunge nulla di più. Ma di papi con figli o nipoti, più o meno segreti, in quell’epoca, ce ne erano stati diversi. Un legame di sangue spiegherebbe molto meglio dell’ospitalità fornita ad un frate durante un sia pur violento temporale, l’irresistibile ascesa romana dei Florenzi. Prove certe comunque non ce ne sono. Di certo i perugini della seconda metà di quel secolo, rosi dall’invidia, non ci andavano leggeri coi Florenzi. Scriveva Raffaele Sozi, architetto e matematico: “Non soffro i pesciaioli ripuliti che procedono con albagia dentro Perugia”; gli facevano eco, più tardi, il notaio Sinibaldo Tassi e l’aristocratico Giuseppe Ansidei (“Hanno comprato la nobiltà con i soldi”).
Marco Antonio, intanto, a Roma attraversava momenti delicati. Gregorio XIII, di cui era cubicolario, lo aveva licenziato e gli aveva fatto correre il rischio, per una vicenda di debiti poco chiara, del carcere. Grazie però a due testimonianze molto influenti – quella dell’arcivescovo di Cosenza, Fantino Petrignani e del cardinale Antonio Carafa, rese nel maggio del 1585 – il Florenzi se l’era cavata. E aveva poi difeso con successo, in tribunale, i suoi diritti. Tanto da darsi al mecenatismo, facendo costruire il soffitto ligneo a cassettoni della chiesa di San Silvestro a Roma (con dedica a Pio V, suo benefattore) e anche una cappella affrescata dal pittore orvietano Cesare Nebbia (dove, dopo la tragica fine, verrà sepolto).
Marco Antonio, che l’anno dopo la grande vittoria di Lepanto (1571), aveva sposato la marchesa Pannina Malaspina, non si era dimenticato certo di Sant’Arcangelo e di Perugia. Tre anni prima della morte aveva disposto un lascito di trenta scudi per le zitelle del suo paese e posto una lapide con stemma in una cappella dedicata a San Biagio a La Badia di Castiglione del Lago. E suo fratello, l’abate Pietro Giovanni, canonico della cattedrale perugina, aveva fatto costruire, su disegno del Vignola, il palazzo, affrescato dal Lombardelli, in quella che ora è via Baglioni (attuale sede del Tar dell’Umbria). Anche una cappella nel duomo di San Lorenzo è stata costruita dai Florenzi. D’altro canto, nella Curia Romana, erano entrati, via via, anche i fratelli Pietro Giovanni e Pietro Antonio e anche il nipote Virgilio, abate e dottore in legge, poi vescovo di Nocera (dal 1606 al 1644). La famiglia, insomma, ricercata ad ogni piè sospinto, dalle autorità perugine per ottenere vantaggi a Roma, aumentava le sue proprietà tanto da acquistare il castello di Ascagnano e le sue terre e il marchesato di Resina (nel 1702).
L’ultima dei Florenzi andò sposa a Bartolo Alfani. La più famosa della casata, invece, fu la bellissima contessina Marianna Bacinetti di Ravenna, vedova del marchese Ettore Florenzi di Resina, poi andata sposa all’inglese Evelyn Weddington (sindaco di Perugia), filosofa e traduttrice, brillante padrona di casa nei salotti perugini, amante del re di Baviera Ludovico I.
Elio Clero Bertoldi
Nell’immagine di copertina, Palazzo Florenzi (attuale sede del Tar dell’Umbria) in via Baglioni a Perugia
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