PALERMO – Il 6 agosto del 1985, nei pressi di via Croce Rossa, a Palermo, una pioggia di proiettili ruppe la quiete di quella che al chiarore dell’alba sembrava essere una normale giornata di sole, frutto della bella stagione. Duecento colpi di Kalashnikov. Tanto basta per spezzare la vita di un uomo che fino all’ultimo istante della sua esistenza ha dato un senso al giuramento che qualche anno prima aveva fatto alla Repubblica Italiana.
Il vicequestore aggiunto Ninni Cassarà era uno dei migliori poliziotti della Squadra mobile di Palermo. Faceva parte di quell’avamposto di uomini – questi sì, d’onore – che non hanno rinunciato al sogno di un’Italia migliore. Al desiderio di un Paese onesto, in cui i soprusi e le ingiustizie potessero essere denunciati alla luce del sole, senza il timore di assurde ritorsioni. Laureato in Giurisprudenza con ottimi voti, iniziò la sua carriera nel commissariato di Reggio Calabria prima di essere trasferito a Trapani ed infine a Palermo. Era riuscito a scoprire un traffico d’affari clandestini tra una parte collusa della Pubblica amministrazione ed esponenti di Cosa Nostra.
Nel capoluogo siciliano conobbe Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lavorò a stretto contatto con i due giudici, oltre che con Rocco Chinnici. Fu tra i primi a decifrare le lotte interne a Cosa Nostra e nel 1982, tre anni prima di morire, stese un rapporto in cui – per la prima volta – si faceva il nome di Michele Greco, mafioso e mediatore tra le cosche, condannato (tra l’altro) per l’omicidio del giudice Terranova.
Una serie di arresti eccellenti ed una parte di primo piano all’interno del maxi-processo, poi l’amicizia con Beppe Montana e la morte di Salvatore Marino. Ninni Cassarà – da tempo – era nel mirino della mafia siciliana. Lo sapeva, il vicequestore, tanto che dopo la morte del commissario Montana (suo stretto collaboratore; Cassarà si recò sul luogo del delitto assieme a Falcone e Borsellino) aveva iniziato a non tornare più a casa, a mangiare panini nel suo ufficio sino a trasformare in un letto il divano della Questura. Voleva riuscire a trovare i colpevoli dell’omicidio Montana e, per un attimo, s’illuse d’esserci riuscito: Salvatore Marino, calciatore e mafioso, venne arrestato dalla squadra mobile, ma, durante un interrogatorio, venne ucciso dagli uomini dei Carabinieri e della Polizia. L’allora ministro Scalfaro dispose il trasferimento degli uomini vicini al vicequestore Cassarà, rimasto solo in una Palermo che – giorno dopo giorno – continuava a raccogliere i cocci della sua anima gentile.
Il 6 agosto del 1985, otto uomini comandati da Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Provenzano, Francesco Mandonia e Bernardo Brusca, lo uccisero davanti alla sua abitazione. Morì tra le braccia della moglie. Con lui, rimase vittima dell’attentato l’agente Roberto Antiochia, ventitreenne.
L’odore della morte continuava a confondersi col vento, in una città che aveva voglia di rinascere.
Alessio Campana
Nella foto di copertina, il vicequestore Ninni Cassarà
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