RIETI – “L’inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, farlo durare e dargli spazio”. Da “Le Città Invisibili”, di Italo Calvino scritto nel 1972: Marco Polo si trova al cospetto di Kublai Khan, imperatore del regno dei Tartari che gli chiede di raccontargli del suo viaggio e delle città che ha visitato. Lui espone un resoconto dettagliato delle 55 città, tutte con un nome di donna, che gli vengono in mente quando vede quelle reali, le sensazioni e le emozioni che suscita ogni città, con i suoi profumi, sapori e rumori.
Il libro è suddiviso in capitoli, ognuno riporta dei paragrafi il cui titolo può essere ritrovato in qualche altro capitolo. Il romanzo non ha una fine vera e propria: capitoli e paragrafi possono essere letti per ultimi e ogni lettore, in base al modo in cui sceglierà di leggere, troverà una fine diversa. Attraverso questi racconti Calvino pone molte riflessioni sul mondo e sulle possibilità che abbiamo di viverci dentro e scamparne, lasciandoci un consiglio per affrontare la vita: abituarci facendo finta di niente, in una sorta di assuefazione, oppure usare il libero arbitrio, che comporta fatica, dubbio, impegno, mettersi in discussione, sbagliare e ricominciare, cadere e rialzarsi, sentirsi soli, fuori dal branco. Ognuno è libero di scegliere, ma le conseguenze di queste scelte individuali ricadono sul resto del mondo, sulle altre città, visibili o no, sull’intera umanità.
“Odio gli indifferenti”, diceva Gramsci. Essere partigiani significa schierarsi e non lasciarsi trascinare dalla corrente, in una sterile omologazione e Calvino ci lascia un grande esempio di impegno civile, politico, culturale. Fu partigiano nella seconda divisione “Garibaldi”, dal dopoguerra diviene uno dei maggiori intellettuali del Novecento, iscritto al Partito Comunista, che lasciò dopo l’invasione dell’Ungheria. Con “Il sentiero dei nidi di ragno” (1946), suo primo romanzo, ha raccontato la Resistenza attraverso gli occhi di un bambino, Pin, coinvolto nel furto della pistola a un nazista. Pin viene arrestato e liberato dal partigiano Lupo Rosso. In seguito entrerà in una banda di partigiani, vivendo da vicino la guerra e allo stesso tempo le contraddizioni e le debolezze di quegli uomini.
Con “La speculazione edilizia” (1957), “La nuvola di smog” (1958), “La giornata di uno scrutatore” (1963) ha raccontato l’Italia del dopoguerra e del boom economico, abbracciando contemporaneamente la letteratura fantastica, in un mix di storia e fantasia; con “Il visconte dimezzato” (1952), “Il barone rampante” (1957), “Il cavaliere inesistente” (1958), cui seguono “Le Cosmicomiche” (1965) e “Ti con zero” (1967). Influenzato dagli scrittori francesi e dall’argentino Jorge Luis Borges, entra nel romanzo sperimentale con “Il castello dei destini incrociati” (1969), dove una serie di ospiti racconta delle storie senza parlare, servendosi unicamente delle carte dei tarocchi, “Le città invisibili” (1972), “Se una notte d’inverno un viaggiatore” (1979), racconta la ricerca da parte di un lettore e una lettrice di un misterioso romanzo di cui si trovano solo diverse versioni dell’inizio, “Palomar” (1983) racconta le osservazioni del mondo dallo sguardo atipico dell’eccentrico signor Palomar.
Tra i saggi “Il midollo del leone” (1955), in cui esprime la sua idea di letteratura, “Il mare dell’oggettività” (1960), in cui parla della stagione neorealista, “La sfida al labirinto” (1962). L’attività saggistica continuerà e sarà raccolta nel 1980 in “Una pietra sopra”. “La fantasia è un posto dove ci piove dentro” ci ha detto Calvino nelle sue “Lezioni americane”. Tra fantasia e realismo, analizza e scruta società, politica, umanità, seminando consigli qua e là, metafore su cui riflettere, riconoscere l’inferno da noi creato e il mondo migliore che potremmo costruire. Ci ha lasciato improvvisamente nel 1985 a soli 62 anni (era nato a Cuba nel 1923): il suo sguardo critico e la sua ironia ci mancano.
Quanti vorrebbero oggi essere un Barone Rampante, come Cosimo Piovasco di Rondò che vive sugli alberi, studia, guarda dall’alto la vita, la morte, il caos del mondo e la realtà, che possiamo vedere da soli, o almeno dovremmo, prima di condirla e arricchirla con la fantasia. L’unico personaggio che mette in imbarazzo Cosimo è Viola D’Ondariva, vicina di casa, che con la sua staticità, l’incapacità di cambiare, riesce anche a condizionare i comportamenti di Cosimo, fino a farlo diventare pazzo. Serve un “ordine disordinato” di uomini, donne e bambini che costruiscono insieme un mondo in continua evoluzione, che non sia un “inferno”. Un inferno che da sempre creiamo noi, esseri umani.
Il suo consiglio è valido oggi più che mai.
Francesca Sammarco
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