Ci sono ancora tante Italie. Troppe. E il riferimento non è alla innata propensione a rinchiudersi nel proprio particulare o ad isolarsi all’ombra del proprio campanile. Se così fosse, si potrebbe essere essere per molti versi soddisfatti perché ogni borgo e ogni contrada della nostra amata Penisola hanno una storia e un’identità (oltre che peculiarità storiche, geografiche, artistiche, architettoniche e anche gastronomiche) che meritano di essere preservate e valorizzate. E chiunque (persona fisica o organizzazione di qualunque genere) si occupi di tutelare questo incommensabile patrimonio merita ogni genere di appoggio e di consenso.
No, il problema è molto più generale e ha radici antiche che affondano in tematiche più volte affrontate, ma mai seriamente risolte. Si pensi alla Questione meridionale e a tutte le sue propaggini: se ne parla e se ne scrive da molti decenni senza che si sia ancora trovata una soluzione che realmente ponga ogni italiano (dalle Alpi all’Etna, da Ventimiglia a Otranto, da Trieste a Cagliari) in condizione di parità. Basti pensare alla Sanità e alla Scuola, i due pilastri fondamentali su cui poggia l’intera architettura dello Stato. Si può, in tutta sincerità, affermare che le cure o l’istruzione siano davvero uguali dappertutto, in ogni angolo del nostro Paese? No, non si può. E lo sappiamo tutti.
Per avere un’immagine più completa sulle sostanziali divergenze ancora esistenti, basta utilizzare i numeri. Che, some si sa, contengono una verità intrinseca, difficilmente contestabile. A tal proposito, è opportuno dare un’occhiata a ciò che pubblicato l’Osservatorio JobPricing attraverso il Geography Index, cioè la classifica della retribuzione media rilevata nelle province italiane. L’analisi fa luce sulle retribuzioni nazionali, trovando un valore di riferimento per ogni regione e per tutte le province, attraverso le RGA (Retribuzioni Globali Annue) medie.
Scendendo nel dettaglio si scopre che “le retribuzioni medie degli italiani sono fra le più basse nei paesi del gruppo OCSE. Nella classifica 2021, l’Italia si colloca al 23° posto su 34 paesi, con 40.767 dollari a parità di potere d’acquisto (PPA), dato inferiore alla media retributiva dei paesi OCSE di 51.606 dollari. Il divario rispetto al top performer, gli Stati Uniti, è pari a circa 34mila dollari PPA. All’interno dell’Eurozona, l’Italia si colloca all’11° posto su 17 paesi: il salario del Lussemburgo, top performer, è più alto di quello italiano di circa 33mila dollari PPA; il salario francese, che in classifica si colloca tre posizioni sopra l’Italia, è di oltre 8.500 dollari PPA superiore; Il salario medio slovacco, che è invece l’ultimo in classifica, pari a 24.804 dollari PPA, ammonta a circa 16 mila dollari PPA in meno del salario italiano”. Dunque, in generale, siamo messi piuttosto male nel confronto con altre nazioni vicine, sia dal punto di vista territoriale che dal punto di vista sociale.
La conferma arriva dal fatto che, ad esempio, gli stipendi medi degli insegnanti sono notevolmente più bassi rispetto a quelli dei colleghi tedeschi o francesi; ma anche dall’emigrazione di tanti medici che addirittura preferiscono andarsene in Arabia e degli infermieri lombardi che scelgono di andare a lavorare in Svizzera. Inutile aggiungere che in questo modo si perdono, forse definitivamente, professionalità che in Italia si sono formate spendendo cospicue risorse, non solo economiche.
Un altro dato significativo rilevato dall’Osservatorio JobPricing: “La Retribuzione Annua Lorda (RAL, che include solo le retribuzioni fisse) media nazionale 2022 è di 30.284 euro. La media per i dirigenti è di 103.418 euro, la media dei quadri di 55.632 euro, gli impiegati si attestano in media a 32.174 ed infine gli operai a 25.522 euro. I dati della Retribuzione Globale Annua (RGA, che include anche qualsiasi componente variabile) sono significativamente differenti dalle RAL solo per quadri e dirigenti”.
In Lombardia la media della RGA lorda è di 33.452 euro (prima regione d’Italia), seguita da Lazio (32.360) e Liguria (32.156). Sostanziali, inoltre, le differenze retributive analizzando le macro regioni: fra Nord e Sud e Isole vi è un gap di circa 4.000 euro in termini di RAL e di circa 4.200 euro in termini di RGA. Tra Nord e Centro, invece, il differenziale supera di poco i 1.100 euro di RAL e si attesta a circa 1.300 euro di RGA. Oltre i 30mila euro si collocano anche Trentino Alto Adige, Emilia Romagna Piemonte, Valle d’Aosta, Veneto e Friuli Venezia Giulia. A parte il Lazio (che gode evidentemente del forte e decisivo traino di Roma), sono tutte regioni settentrionali… Scorrendo la graduatoria, ci sono Toscana, Marche, Umbria e Abruzzo e a chiudere il Sud e le Isole, con il fanalino di coda rappresentato dalla Basilicata (26.055 euro di RGA nel 2022). C’è bisogno di aggiungere altro?
E le città? Al primo posto c’è Milano con 36.952 euro, seguono Trieste (34.555) e Bolzano, (34.067). Il primo posto del capoluogo lombardo viene fra l’altro confermato anche da un’indagine del Centro Studi delle Camere di Commercio Tagliacarne: rapportato alla popolazione residente, la paga è di 30.464 euro nel 2021, due volte e mezzo la media nazionale di 12.473 euro e nove volte più alta di quella di Rieti, fanalino di coda nella classifica retributiva. Roma è quarta con 33.472 euro, Bologna settima (32.557), Torino nona (32.523). Al 17. posto c’è Firenze (31.357 euro), al 29. Venezia (30.555), al 60. Palermo (28.629), al 64. Bari (28.324), al 68. Napoli (28.035). Catania è 84. (27.221), Nuoro 102. (25.905). Chiude la classifica Ragusa (24.129 euro); poco prima c’è Crotone (25.455) e ancora prima Matera (25.694).
Un’ultima considerazione: “Sebbene non dovrebbe esserlo – sottolinea ancora il report – il genere è una caratteristica individuale che determina delle differenze significative nei salari: le donne partecipano di meno alla vita lavorativa, lavorano meno ore degli uomini, hanno contratti meno stabili e non sono equamente presenti tra la base e il vertice delle organizzazioni. Tutto questo si traduce in un divario salariale a sfavore delle donne rispetto agli uomini, il cosiddetto gender pay gap. Che in Italia è profondamente influenzato dal settore in cui si lavora: il settore pubblico registra un pay gap (4,1%) tra i più bassi in Europa, al contrario il settore privato uno tra i più alti (16,5%)”. Insomma, per le donne meridionali che lavorano nel privato, la situazione – se possibile – è ancora peggiore.
I numeri parlano chiaro: tra Nord e Sud, in generale, esistono tuttora, ad oltre 150 anni dall’Unità, differenze cospicue che una società civile e realmente giusta non dovrebbe tollerare, lavorando sodo per attenuarne le disparità. Nel 1972 il Corriere della Sera titolava: “Il divario fra Nord e Sud verrà colmato solo nel 2020”. Magari.
Buona domenica.
Lascia un commento