La vita di Rosita è di una piattezza infinita. Dopo il diploma, ha lasciato il malinconico paesello natio per andare a studiare Medicina a Padova: in 7 anni ha concluso davvero poco. E’ decisamente fuori corso, per dirla con crudezza. Lavora part-time in un supermercato, ma i 600 euro di stipendio le bastano per pagarsi la camera e per sbarcare a malapena il lunario. Non ha tempo per studiare e nemmeno per frequentare le lezioni. Vede un uomo, al ritmo di un incontro al mese, ma è sposato: improvvise apparizioni, un paio d’ore insieme e poi il nulla, neppure un messaggino o un whatsapp per settimane intere. Ma lei si accontenta, anzi è pure soddisfatta di un menage che ha almeno il pregio di non impegnarla molto. Peraltro non è che il fisico la aiuti granché nel cercare altre possibili avventure: bassina (“Sono più alta solo dei ragazzini, neanche tutti…”), non si trucca mai, seno appena accennato (seconda scarsa), abbigliamento sciatto e, spesso, trasandato.
Rosita, da quando è rimasta orfana, ha solo la madre, una donna possessiva e ossessiva che le ha reso la vita impossibile: “Devo andarmene da questa casa o mi verrà una brutta malattia”. Lo fa ufficialmente per andare a studiare e cercare di realizzarsi in qualche modo, ma la verità è un’altra: deve stare fisicamente lontana da una persona che non le ha mai perdonato niente, che la avvolge di un affetto morboso e malato, che le rimprovera ogni gesto e ogni parola e che soprattutto non ha mai accettato la sua decisione di iscriversi a Padova. Tanto da mettere subito in chiaro che non avrebbe contribuito in alcun modo alle spese. Quindi, la necessità di lavorare: l’unico sostentamento le arriva da un piccolo lascito del padre che utilizza per pagare le tasse. Ma quel fondo si sta pericolosamente assottigliando…
E’ la vigilia di Natale e Rosita, oltre ai consueti problemi di normale sopravvivenza, deve fare i conti con un imprevisto: si è rotta la caldaia dell’appartamento che divide con altre studentesse e la sua quota per la riparazione ammonta a 150 euro, da versare entro la fine di gennaio. Soldi che non ha e che non sa dove trovare. La ressa e lo struscio natalizi neppure la sfiorano, assorta com’è nelle sue preoccupazioni, perciò non si accorge di un borseggio che avviene sotto i suoi occhi sul pullman che la sta portando al lavoro. Se ne rende conto solo quando, appena scesa alla fermata, vede qualcuno buttare un portafoglio nel cestino dei rifiuti. Individua anche la vittima che, inconsapevole del furto subito, si sta allontanando tra la folla: è un donnone alto come un corazziere che fende la gente come la prua di una nave.
La ragazza recupera il portafoglio: i soldi sono spariti, ma dentro sono i rimasti i documenti. Il turno del 24 dicembre dovrebbe finire per lei alle 17, ma una collega (Dina, l’unica con cui ha legato) la libera in anticipo. E così Rosita decide di restituire subito il portafoglio alla legittima proprietaria: peraltro per i suoi miserrimi programmi natalizi, persino attraversare la città per un gesto di onestà diventa un piacevole diversivo. La donna che ha subìto il borseggio si chiama Larisa, è ucraina ed è la governante di un noto avvocato di Padova: Ludovico Lepore. E’ l’incontro che le cambia la vita. In peggio o in meglio, si vedrà.
“L’animale femmina” è lo splendido romanzo d’esordio di Emanuela Canepa, vincitore all’unanimità del Premio Calvino 2017. Un racconto duro, teso, appassionato; un lungo percorso che scava nell’animo dei protagonisti. Certo di Rosita, ma anche di Ludovico, di Guido (suo amico d’infanzia), di Renata Callegari (anche lei avvocato nello studio legale), di Larisa, della mamma rimasta nel paesino in provincia di Caserta a rimuginare su quella figlia “ingrata” che ha preferito andarsene lontano.
L’avvocato Lepore inaspettatamente decide di offrirle un impiego come segretaria: lavorerà di meno (25 ore a settimana) e guadagnerà di più (750 euro al mese). Ci pensa un po’, ma alla fine accetta e comincia un’avventura dai mille risvolti. Ludovico Lepore è un austero ed elegante signore alle soglie degli ottant’anni; omosessuale ma senza ostentazioni, anzi sempre attento a non divulgare i vari legami che si sono susseguiti nella sua vita. Il suo avviatissimo studio professionale gli ha consentito una vita agiata, ma arida. Gli manca qualcosa ed è profondamente misogino; i suoi discorsi sono improntati ad una razionale crudezza (al limite del cinismo) che cerca di trasmettere a Rosita. Che già è timida di suo, ma l’ingombrante avvocato la rende ancora più impaurita. A certe urticanti elucubrazioni non sa come rispondere (“Le risposte giuste mi vengono in mente sempre due giorni dopo”) e, quando vorrebbe replicare, si trattiene per timore di perdere il lavoro. Intanto, il fatto di svolgere il ruolo di segretaria le impone cambiamenti sostanziali: deve truccarsi, deve indossare vestiti consoni (glieli regala Renata), deve soprattutto saper preparare un caffè perfetto. Può studiare e infatti, dopo vari e inutili tentativi, supera lo scritto di Fisiologia con un brillante 28.
C’è un segreto, però, nella vita di Lepore: l’amicizia con Guido e un soprammobile, brutto e di scarsissimo valore, ma fondamentale nella sua esistenza. Ed è il fil rouge che lega i diversi personaggi del romanzo. Non è il caso di scendere troppo nei particolari per evitare di spoilerare il finale. Ciò che conta è sottolineare l’intensa scrittura di Emanuela Canepa, nata a Roma nel 1967 e attualmente bibliotecaria a Padova, dove vive. “L’animale femmina”, oltre al Premio Calvino, ha vinto il Premio Letterario Fondazione Megamark, il Premio Anima della Confindustria e il Premio per la Cultura Mediterranea – Fondazione Carical nella sezione Narrativa Giovani. Un romanzo denso di emozioni che rivela “le contraddizioni delle donne, ma anche le fragilità degli uomini in un’educazione sentimentale che ribalta le dinamiche di potere, rivelando quanto siamo inermi, tutti, di fronte a chi amiamo”.
Buona domenica.
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