BORGOROSE (Rieti) – Ragioni politiche, religiose, calamità naturali, guerre, carestie, persecuzioni: l’emigrazione è l’unica soluzione dell’uomo alla ricerca della sopravvivenza e del benessere, anche se le modalità non sono state sempre le stesse. Emigrare non è una scelta che si fa a cuor leggero, mancherà sempre il proprio paese e allo stesso tempo si è estranei nel paese che ci ha accolto.
L’emigrazione dal 1900 al 1950 degli abitanti di Torano, piccola frazione del comune di Borgorose, ai confini con la Marsica, è stato il tema dell’incontro “Ne semo douti ‘i a l’Lamerica”, organizzato dall’associazione ‘Amici di S. Martino’, particolarmente impegnata nel recupero del portale della storica chiesa di S. Martino, che sorge in un sito archeologico di grande interesse, diventato campus universitario dell’Università di Rochester. La chiesa è stata restaurata, grazie alle prime raccolte fondi e all’impegno del parroco don Mario Mandarini, oggi è al riparo dalle intemperie con il tetto ricostruito e può ospitare in sicurezza convegni e conferenze, molte pietre giacciono nelle navate in attesa di essere nuovamente ricollocate, fra cui quelle del portale.
Durante l’incontro sono state proiettate le immagini della chiesa (com’era e com’è) e lanciato un nuovo appello per arrivare al traguardo, che non è più tanto lontano. Il presidente dell’associazione Antonio Bertoldi ha salutato i presenti con la nota frase del filosofo francese Bernardo di Chartres “siamo nani sulle spalle di giganti”, a sottolineare che se riusciamo a guardare lontano è grazie a chi ha vissuto prima di noi, all’eredità di esperienze di chi ci ha lasciato e ai sacrifici vissuti. Marino Nicolai, docente di Torano, ha relazionato sulle ricerche, con foto, video, lettere degli emigrati alle famiglie, lette da Angela Cattivera e musiche popolari sull’emigrazione eseguite da Giacomo Proia, a iniziare da ‘mamma mia dammi cento lire che in America voglio andar’.
Il biglietto effettivamente costava dalle 100 alle 150 lire, che equivaleva alla paga di tre mesi di un bracciante agricolo. In 100 anni sono emigrati 26 milioni di italiani, qualcuno è tornato, altri hanno fondato delle comunità di 60 milioni di connazionali, in America, Argentina, Venezuela, Australia. Dal 1900 al 1920 sono emigrati 10 milioni di italiani, alcuni ancora minorenni, inizialmente per la crisi economica con l’arrivo del grano dall’America che provocò il crollo del prezzo del grano europeo. Prima del 1900 partirono soprattutto dal Nord, Veneto, Piemonte, Lombardia. Poi l’Agenzia Generale Italiana di navigazione, con i propri agenti e subagenti (una sede era a Borgorose, che un tempo si chiamava Borgocollefegato) cercava di vendere i biglietti e di incentivare le partenze, scegliendo le famiglie più deboli, dando anche indicazioni su dove andare.
Per darsi coraggio partivano in gruppi di 7/8 persone, chi andava in America (13 giorni di viaggio) partiva da Napoli, chi andava in Argentina (23 giorni), Venezuela (17 giorni), Australia (28 giorni) partiva da Genova. Le partenze erano tutte stagionali, quando finiva il lavoro nei campi in Italia e iniziava quello nel continente opposto. Molti fecero più volte il viaggio, altri restarono anni, altri non tornarono. I controlli in America erano più serrati e per questo la maggior parte degli abitanti di Torano (e non solo) scelse l’Argentina (20 toranesi scelsero l’America, 60 scelsero l’Argentina, in totale furono 51.779 ‘Gli italiani d’Argentina’ come canta Ivano Fossati), a Buenos Aires venivano accolti all’albergo degli immigrati, oggi il quartiere italiano La Boca è bello e colorato, un tempo erano tristi e grigie baracche.
La nave poteva contenere anche più di 1500 passeggeri, molti partivano in anticipo per paura di perderla e bivaccavano alcuni giorni nelle strade, dormendo nelle chiese al porto di Napoli e di Genova. Parlare degli emigrati di Torano equivale a parlare di tutti gli emigrati italiani e indovinate chi ha saputo descrivere minuziosamente e con grande efficacia, le condizioni di viaggio? Edmondo De Amicis, proprio lui, nel libro Sull’Oceano pubblicato nel 1889: un reportage giornalistico e allo stesso tempo racconto orale vissuto in prima persona. Egli stesso si imbarcò per Buenos Aires a Genova e descrisse la mancanza di servizi igienici a bordo, le camerate dove dormivano ammassati vecchi e giovani, donne e uomini, come erano vestiti, madri che allattavano dove capitava, l’emozione dell’arrivo, la ricerca delle proprie scarpe al risveglio ogni mattina, le discussioni, le tensioni, le paure. Nel libro permane la filosofia deamicisiana “la maggior parte delle creature è più infelice che malvagia e soffre più di quanto faccia soffrire”.
Gli uomini partiti a ridosso della prima guerra mondiale, al loro rientro, anche dopo anni, vennero processati per diserzione, poi assolti. Chi sbarcava a New York e non era un viaggiatore di prima e seconda classe (visitati a bordo), ma di terza classe, era confinato ad Ellis Island (l’Isola delle Lacrime, dismessa nel 1956). Inizialmente erano solo scogli, poi diventò un’isola di 11 ettari, con la terra dello scavo per costruire la metropolitana di New York. La visita medica, le schede di immigrazione con 29 domande cui era difficile rispondere in una lingua sconosciuta, a volte anche i nomi venivano registrati male, anche per questo la ricerca non è stata facile e alcuni discendenti hanno aiutato nelle identificazioni. Su 12 milioni di visite, solo l’1% venne respinto perché non idoneo, facendo una X con il gesso sulla schiena.
Alcuni parenti leggono le lettere ritrovate nei cassetti e l’emozione è tanta: vita quotidiana, salute, le difficoltà del lavoro, le richieste di invio di denaro a casa (“lo farò appena posso”), la voglia di rientrare aspettando una legge per il pagamento della pensione in Italia, padri che non hanno mai conosciuto i figli. E’ la storia dell’umanità, che spesso si ripete tragicamente, per questo dovremmo ricordare e accogliere: nessuno fugge dal proprio Paese se non è costretto.
Francesca Sammarco
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