MILANO – Il premio Strega 2023 è stato assegnato postumo ad Ada d’Adamo per “Come d’aria”, una bella e toccante testimonianza autobiografica di una madre e del rapporto con la propria figlia disabile Daria; intorno a loro tutto un mondo di amore / rabbia, inclusione / esclusione, abilità / disabilità, salute / malattia. L’insorgere di un tumore muterà il loro rapporto fisico, alterando i momenti della quotidianità, ed indurrà l’autrice a scrivere questo memoir proprio per lei, Daria. Niente è inventato, si legge nell’epigrafe iniziale, tranne il nome di qualche bambino, ma “autentiche restano le loro parole”.
Pagine drammatiche scritte con cruda realtà, che riflettono ed esprimono pienamente la durezza delle ore, dei giorni, del tempo dilatato e sempre uguale di chi queste situazioni le vive. I corpi di Ada, ex ballerina che si ammalerà di tumore, e di Daria affetta da oloprosencefalia con gravi difficoltà motorie e cognitive (“ma con un grande e bel sorriso”) diventano il tramite dell’amore che le unisce profondamente in un legame simbiotico e totalizzante, costruito giorno per giorno sulle macerie scavate dalla diagnosi post-natale e rese ancora più pericolanti dalla successiva malattia di Ada.
La rappresentazione di questo spaccato di vita non può che prendere qualsiasi lettore, non tanto perché ci si attenda l’evolversi di eventi il cui finale ineludibile è purtroppo già scritto, ma quanto perché si innesca una solidarietà forte che induce ad accompagnare empaticamente chi coraggiosamente sta mettendo a nudo la propria vita, quasi a volerne condividere il dolore e la sofferenza in nome della consapevolezza dell’estrema “volatilità” (come d’aria , appunto) della dimensione umana. Nel racconto le escursioni nella quotidianità hanno colori diversi e suscitano sensazioni contrastanti; campeggia spesso il grigio della burocrazia con il tempo delle sale d’attesa per le visite, durante il quale vedere lo stesso “dolore negli altri” non fa che amplificare le proprie piaghe; le lungaggini delle pratiche da compilare; le graduatorie degli istituti scolastici, causa della rotazione dei docenti e della conseguente discontinuità didattica nell’insegnamento per Daria (“Benvenuti nella scuola dell’inclusione!”, pensa spesso con amaro sarcasmo Ada).
Si giunge al paradosso della cieca ottusità burocratica dell’ASL che, ignorando la gravità della malattia (“forse in futuro potrà camminare”), nega il riconoscimento del permesso disabili per il parcheggio della macchina. Per fortuna ci sono anche tutte le sfumature gioiose dell’arcobaleno nelle parole che i compagni di scuola ed i piccoli amici scrivono a Daria: dall’ingenuità benevola di una piccola amica che è convinta che sulla sedia a rotelle debbano starci “le persone e non le bambine”, a Viola (5 anni) che, quando scopre che Daria non parla, non cammina, non vede, giunge con naturalezza alla conclusione che sia “magica” o ancora al compagno Orlando che scrive, dopo il rientro di Daria a scuola, che quando c’è lei tutti pensano “meglio e con più fantasia e bravura, perché Daria apre la nostra immaginazione”.
Si tinge tutto di nero quando Ada esterna il proprio dolore in una lettera a Corrado Augias pubblicata su “la Repubblica”, dando voce drammaticamente alla sua rabbia nei confronti di chi ha sbagliato la diagnosi prenatale, non individuando correttamente la grave malformazione di Daria e alle sofferte riflessioni sull’aborto che meritano attenzione ed ascolto. Similmente buia e soffocante è la solitudine che accompagna la malattia e la disabilità; tante volte, purtroppo, le cronache riportano episodi di omicidio/suicidio di familiari che compiono gesti disperati nei confronti di congiunti in difficoltà e di se stessi. L’autrice sottolinea con sconforto che “la malattia è la miseria massima, la massima miseria della malattia è la solitudine”, citando J. Donne.
Senza spiragli di luce, infine, la non accettazione della diversità che passa dal viso atteggiato a disgusto della passante che scorge le fattezze diverse di Daria, alla assente o scarsa organizzazione di tante strutture pubbliche in cui l’accoglienza e l’inclusione restano solo sulla carta di una legislazione pur avanzata, a fronte di situazioni a dir poco sconfortanti. Aspetti di una triste realtà che indurrebbero quasi a volersi rifugiare in una dimensione favolistica e credere che, come ne “Il brutto anatroccolo”, il dolore possa essere lenito dai tepori primaverili e trasfigurarsi in speranza di guarigione nella maestosità dell’apertura alare di un cigno.
L’impietosa realtà tuttavia si ricompone inesorabilmente nel commiato finale di Ada/mamma, nelle sue parole di amore lacerante: “Sei Daria. Sei d’aria nel tuo nome, un destino che non ti fa creatura terrena, perché mai hai conosciuto la forza di gravità” e nell’auspicio che la terra e la vita “siano lievi” per lei. Il lirismo si fa toccante e riporta a Marziale (poeta latino del primo sec.d.C.) che dedica alla piccola schiava Erotion, morta a sei anni, un epigramma in cui chiede ai propri anziani genitori defunti di accoglierla perché non abbia paura delle ombre oscure del Tartaro, sperando che il suo esile corpo non sia coperto da una dura zolla (rigidus caespes) e la terra sia lieve! (Terra non gravis…).
L’epilogo del libro ha proprio la drammatica sinteticità degli epigrammi classici: Ada rivendica l’essenza del proprio essere e nel contempo il dubbio o la speranza (?) che, dissolta ogni fisicità, possa ricongiungersi in un’estrema forma d’amore con sua figlia “Sono Ada. Sarò d’aria. Finirò col disciogliermi in te?”.
Adele Reale
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