TARANTO – Gli ultimi dati sulle giacenze in Italia di “olio di oliva”, ricavati dal report dell’ICQRF (Ispettorato Centrale della tutela della Qualità e Repressione Frodi dei prodotti agroalimentari del Ministero dell’Agricoltura), certificano che al 31 luglio 2023 quasi il 72% degli oli detenuti sul nostro territorio, sfusi e confezionali, era rappresentato dall’olio extravergine di oliva (EVO): 144.853 tonnellate su un totale di 201.485 tonnellate. Circa il 42% di tale percentuale era costituito da prodotto italiano, il 45% da prodotto UE e la restante parte da oli extra-UE (8%) e da miscele varie di EVO (5%).
Ma non esiste solo l’olio extravergine di oliva: c’è anche quello vergine (1,7% del totale), quello lampante (7,6%), quello di oliva (9,4%) e quello di sansa (7,8%). Opinione diffusa è che la differenza qualitativa tra i vari tipi di olio per il consumo alimentare sia fondata sul parametro “acidità”: l’olio EVO deve, infatti, avere un’acidità massima dello 0,8% e quello vergine del 2%. Non è così: un olio lampante, non adatto al consumo, se rettificato fisicamente e chimicamente e poi raffinato, raggiunge facilmente un’acidità inferiore allo 0,3%. In realtà, i parametri considerati e controllati per definire EVO un olio sono davvero tanti e sono stati introdotti proprio per evitare l’assai redditizia pratica dell’adulterazione.
Premesso che l’olio d’oliva possiede importanti capacità benefiche per la presenza, soprattutto nell’olio extra vergine d’oliva, di particolari sostanze antiossidanti, è importante che il consumatore impari a tutelarsi: l’ultima grande operazione antifrode, condotta dai carabinieri del NAS di Firenze, ha evidenziato che aggiungendo clorofilla, β-carotene e modeste quantità di olio di oliva ad un olio di semi, assai probabilmente di provenienza extra-UE, si era ottenuto un prodotto apparentemente molto simile all’EVO, che è stato abbondantemente distribuito tra Toscana, Umbria e Lazio negli anni a cavallo del 2015.
Come proteggersi, dunque? Anzitutto considerando il prezzo alla vendita: i costi di produzione dell’EVO (“di produzione”, si badi bene!) sfiorano i 10 € al litro; poi leggendo attentamente l’etichetta e scartando decisamente l’olio che ne è privo e magari è stato confezionato in contenitori trasparenti. C’è infine il trucchetto di mettere l’olio in frigo: l’EVO tende, infatti, a solidificare. Più pratico e più sicuro è acquistare olio “bio” ed avere fiducia nell’operato degli Ispettorati e dei NAS: una fiducia ben meritata nella stragrande maggioranza dei casi.
È vero che la chimica moderna può fare miracoli e, se utilizzata per scopi fraudolenti, è in grado di render dura la vita dei controllori, ma il business milionario della contraffazione alimentare non è una caratteristica deviata dei nostri giorni: ce ne parla Plinio il Vecchio nel libro XV della sua Soria Naturale. «All’epoca di Catone [Marco Porcio Catone, autore del De agri cultura liber] non esisteva olio adulterato [lett. ficticium oleum], visto che non ne parla affatto. Esistono molti modi per adulterare l’olio, il più comune di questi prevede l’utilizzo del frutto dell’oleastro invece che dell’olivo. L’olio di oleastro è molto più leggero e amaro e può essere usato solo a scopo medicinale [per gli unguenti]. Molto simile a questo è l’olio che si ricava dalla camelina [Camelina sativa], un arbusto rupestre, non più alto di un palmo, cui vengono unite foglie e bacche dell’oleastro. L’altro più usato prevede l’utilizzo del ricino, comune in Egitto ma recentemente si trova anche in Spagna: un albero che cresce velocemente sino a raggiungere l’altezza dell’olivo, con un fusto sottile, le foglie simili a quelle della vite […]».
«Da noi – continua – viene cotto in acqua e si raccoglie l’olio che galleggia, mentre in Egitto è spremuto a freddo e ricoperto di sale: è disgustoso per i cibi e fioco per le lucerne. L’olio di mandorla, che qualcuno chiama neopum, si estrae dai frutti sgusciati delle mandorle amare seccate, pestate, ammollate in acqua e ancora spremute. Si ricava olio anche dall’alloro mescolato con l’olio delle drupe: ottimo per questo è l’alloro selvatico con le sue bacche nere. Simile a questo è quello ricavato dal mirto nero a foglia larga: le bacche vengono spruzzate con acqua calda, pestate e infine cotte. Si può usare anche il mirto coltivato ma è migliore quello selvatico, che ha il seme più piccolo: qualcuno lo chiama pungitopo [lett. oxymyrsinen]. Olio si ottiene anche dal limone, dal cipresso, da alberi di noci (lo chiamano carynum), dai meli, dal cedro (lo chiamano pissaleon) e anche dal grano di Cnidio [una città turca] pulito del seme e schiacciato o dal lentisco. Si dice che gli Indi lo facciano dalle castagne, dal sesamo e dal riso, mentre quelli che si nutrono soprattutto di prodotti ittici dal pesce». E prosegue, parlando degli unguenti…
Adulterare gli alimenti per trarne illecito profitto è pratica antichissima e il fatto che Catone, un secolo prima di Plinio, non ne parlasse nella sua opera non significa affatto che le frodi ai suoi tempi non esistevano. Oggi, però, possediamo gli strumenti tecnologici, normativi e mediatici per garantire la tutela del consumatore: sempreché, in questo marasma di disinformazione e preconcetti complottisti, il consumatore accetti di essere tutelato…
Riccardo Della Ricca
Lascia un commento