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E se provassimo a metterci nei panni degli altri?

di | 2018-08-01T22:40:45+02:00 5-8-2018 6:25|Attualità, Sezione 6|0 Commenti

ROMA – “Prova a metterti nei suoi panni…”. Oppure, come dicevano gli antichi, “i panni sporchi si lavano in casa”. Quante volte abbiamo sentito dire queste frasi. A pensarci bene, sono modi di dire abbastanza buffi. Chi potrebbe o vorrebbe poter  scambiare le proprie vesti, i propri occhiali o anche solo il proprio cappello, con quelli di qualcun altro, magari anche senza la dovuta confidenza? Queste parole spesso, purtroppo, riempiono la bocca di quelle persone che, dando importanza solo all’apparenza più che alla sostanza, si rendono protagonisti unicamente di uno sterile buonismo.

In realtà, queste parole sono portatrici di un messaggio molto profondo, oltre che difficile da accogliere e concretizzare. Mettersi nei panni degli altri vuol dire essere in grado di capire che la persona che abbiamo davanti, in ogni situazione e indipendentemente dalle sue condizioni fisiche, mentali ed economiche, è come noi. Ma se bisogna imparare a mettersi nei panni degli altri per capirci qualcosa in più, possibile che debbano essere solo dei panni puliti e per giunta lavati in casa?

Forse questa storia dei panni sta sfuggendo di mano…

Se i panni sporchi non ci fossero, non avrebbe senso stare sulla terra a soffrire di caldo in agosto e a morire di freddo in dicembre, come non servirebbe a nulla fare esperienze per crescere e diventare persone migliori, giacché saremmo già migliori così. Che senso avrebbe sperimentare emozioni, relazionarsi, imparare ad accettare ciò che non possiamo cambiare (che di solito equivale a dire “smetti di volere quello che non ti è dato avere e fattene pure una ragione’), insomma in una parola che senso avrebbe vivere? Nessuno. Se fossimo già “imparati” non ne avremmo bisogno. E quindi mettersi nei panni degli altri (se ci vanno) vuol dire accettarne le “sporcature”, comprenderli ma non giustificarli, capirli ma non giudicarli.

Provando a fare un passo indietro forse se ne vivi. Quante volte ci mettiamo nei panni degli altri? Poche, pochissime. Intanto perché non siamo educati a farlo. Fin da piccoli ci insegnano come reagire e non come capire i compagni, gli amici, i fratelli, le sorelle: ti ha picchiato e tu picchiali (metodo Montessori, pare…), Ma chi ci insegna al posto della reazione la comprensione, la voglia di conoscere il motivo che ha spinto l’altro ad oltraggiarci senza giudicarlo sbagliato a priori? Non molte persone, è bello sperare che qualcuno lo faccia ma si contano sulle dita di una (o anche mezza) mano.

E quando si cresce “mettersi nei panni degli altri” diventa pressoché impossibile, diciamo la verità, non si può fare e soprattutto non si sa come farlo. Come se ne esce? Prima di qualunque riflessione arriva in soccorso il giudizio, compagno fedele dei momenti più spensierati della giovinezza ma soprattutto della maturità: corre in aiuto ogniqualvolta lo desideriamo. E lo fa con una precisione certosina. Insieme a lui, di solito viaggia mano nella mano anche il pregiudizio, altro fido scudiero, pronto a battersi coraggiosamente per la sua (presunta) verità.

A questo punto la trappola è scattata. E adesso che succede? Succede che, quando proviamo a metterci nei panni dell’altro, troviamo dei costumi non degli abiti. Vestiti di scena, immacolati, curati, deliziosi e raffinati, di tessuti meravigliosi e rifiniture magistrali, ma completamente finti. Nessuno è disposto a riconoscere che i propri panni sono sporchi in pubblico perché si sente subito giudicato. Nessuno ha voglia di mostrare le proprie fragilità, le vulnerabilità che rendono così irresistibilmente e irrimediabilmente umani se queste diventano ottime armi per gli altri.

Ma se invece di giudicare tutto e tutti senza sapere niente di come se la passa chi sta in fronte, provassimo ad ascoltare (non con le orecchie ma con il cuore, cioè senza mettere il nostro ego in primo piano), ci accorgeremmo che, come per magia, inizia a crescere un irrefrenabile moto di comprensione: da un lato aiuterebbe gli altri a mostrare quei benedetti panni sporchi (se gli va) e dall’altro permetterebbe di imparare qualcosa di più su noi stessi. Mettiamoci nei panni degli altri, anche se sono sporchi, perché magari quella macchia potremmo averla fatta proprio noi, con il nostro giudizio o potremmo riconoscerla uguale alla nostra, provocata da qualcuno che, a sua volta, ci ha giudicato…

E chissà che proprio quelle macchie non siano l’antidoto all’irrefrenabile e antico impulso di puntare il dito contro chi ci sta di fronte, ricordando a noi stessi che ogni mattina, quando si mettono i piedi giù dal letto, ognuno ce la mette tutta per fare del proprio meglio.

Oltre a questo, non serve sapere altro.

Adele Paglialunga

Nella foto di copertina, una scena del film “In her shoes”

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