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Cenerentola, quanti danni hai fatto…

di | 2023-08-11T15:25:47+02:00 13-8-2023 5:00|Attualità, Sezione 1|1 Comment

RIETI – Riflessioni e vaneggiamenti di un caldo pomeriggio estivo: Cinderella, ma quanti danni hai fatto? Non solo ci hai lasciato “Il complesso di Cenerentola, la segreta paura delle donne di essere indipendenti” scritto da Colette Dowling (1982), ma anche un autentico caso clinico di psicopatologia dell’abbigliamento, come scrive nel 1975 Bernard Rudofsky ne “Il corpo incompiuto”, che inizia con una versione truculenta della favola originaria dei fratelli Grimm (successivamente ‘depurata’): “Sarà mia sposa soltanto colei che potrà calzare questa scarpa d’oro”.

Allora le due sorelle si rallegrarono perché avevano un bel piedino. La maggiore andò con la scarpa in camera sua e volle provarla davanti a sua madre. Ma il dito grosso non entrava e la scarpa era troppo piccolina; allora la madre le porse un coltello e disse: “Tagliati il dito; quando sei regina non hai più bisogno di andare a piedi”. La fanciulla si mozzò il dito, serrò il piede nella scarpa, contenne il dolore e andò dal principe. Egli la mise sul cavallo come sua sposa e partì con lei”.

L’inganno venne scoperto, perché il sangue sgorgato dalla scarpa aveva tinto di rosso le sue calze bianche, insudiciandole e ingarbugliando i simboli. Il principe restituì la disgraziata, ma la madre, imperterrita, affibbiò all’ingenuo sposo la sua seconda figlia, dopo averle rimpicciolito il piede con l’amputazione del tallone. Anche questo inganno viene scoperto, finché arriva Cenerentola e la virtù rappresentata dalla misura della scarpa. Feticismo delle scarpe e dei piedi (ricordate Nanni Moretti in Bianca?), da parte del principe, una madre maniaca, ruffiana e insensibile, figlie obbedienti e martiri.

Cenerentola “sereno fantoccio”, scrive Rudofsky, ne esce incontaminata da problemi e passioni: evviva dunque le donne superficiali, che non si fanno domande e non creano problemi? Se una donna ha carattere si dice subito che ha un brutto carattere, se esprime le sue posizioni è polemica, oppure non conosce il grigio e se si arrabbia è violenta o comunque ‘disturba’, perché ‘il nostro piangere fa male al Re’ (Dario Fo, Enzo Jannacci).

Del resto sono secoli che racconti, leggende e favole ci condizionano a livello subliminale, oggi si sono aggiunti influencer, social, programmi (si fa per dire) televisivi che danno più importanza all’immagine, ma non c’è niente di nuovo. “All’ora della nanna – prosegue Rudofsky – questa fiaba viene sussurrata ad avide orecchie e s’imprime per sempre nella memoria dei bimbi. In tenera età, prima ancora di saper distinguere tra bene e male, essi apprendono il potere magico dell’abbigliamento e il fatto che amori e sicurezza sono promessi alla brava ragazza che ottempera senza riserve ai gusti dell’uomo”.

In Cina i piedi delle bambine venivano fasciati sin dalla nascita per contenerli, deformando le ossa, impedendone lo sviluppo: la donna doveva camminare a piccoli passi dietro all’uomo. E che dire della favola di Barbablù? Ci richiama alla curiosità di Eva, che mangia il frutto proibito, alla punizione di Dio e a quella del marito-padre-padrone Barbablù: queste sono le chiavi, fai quello che vuoi, ma non devi aprire quella porta. Tutte le mogli che la aprono vengono uccise: torna la morale della donna che deve essere obbediente e sottomessa.

Bernard Rudofsky (1905–1988) era un architetto, critico, stilista e disegnatore di moda, tutte le sue opere sono state influenzate dall’interesse verso la relazione tra il proprio corpo, l’uso dei sensi e l’abbigliamento. “Nella battaglia dei sessi, l’abbigliamento e le sue armi accessorie sono le armi d’offesa di cui essa dispone. Qualunque sia il nostro punto di vista sull’abbigliamento, c’è un elemento che risalta in modo particolare: il fatto che non possiamo, o non vogliamo, accontentarci di una determinata foggia di vestiario se non per un periodo transitorio. La nostra insoddisfazione per il corpo e per ciò che lo copre si esprime in mutamenti incessanti. Ogni vestito nuovo diventa una specie di complice con il quale stabiliamo un rapporto estremamente intimo, anche se breve”.

Ecco il nostro voler seguire la moda, il voler essere alla moda: una analogia con le fasi del corteggiamento, il far parte del ‘branco’. Nel mondo animale però è il maschio che infatua la femmina con la sua vistosa apparenza, nella società umana questo compito è della donna e infatti nella società umana, le donne sono sempre in competizione fra di loro, mentre nel mondo animale sono i maschi che lottano per l’accoppiamento.

Il libro, in vendita ancora oggi online, ci fa riflettere sulla nascita degli abiti, nei secoli e nelle diverse civiltà, le sculture, i ritrovamenti archeologici, le opere d’arte, l’anatomia della pudicizia, diversa tra Oriente e Occidente, un campionario di mostri, il corpo alla moda e quanto è cambiata nei secoli, gli abiti di metallo, indumenti per due, i vestiti e l’artista: il godimento della scomodità.

Tornando a Cenerentola e al complesso che ci ha lasciato, Colette Dowling ci mette in guardia sul modo in cui siamo state allevate, giorno per giorno, anno dopo anno: “Non ci hanno mai allenate alla libertà, ma al suo estremo opposto, la dipendenza, ripetendoci che saremmo state parte di un’altra persona, che saremmo state protette, aiutate, tenute a galla dalla felicità coniugale, fino al giorno della morte”.

L’autrice si concentra sul bisogno inconscio di dipendenza, vissuto ognuna a diversi stadi di livello personale, il desiderio profondo che altri si prendano cura di noi (eterne figlie alla ricerca del padre?), elemento che blocca le donne e per questo definito come ‘complesso di Cenerentola’ a cui si aggiunge la sindrome della “brava ragazza” che influisce negativamente sulla sfera sessuale. Uno stato d’animo antichissimo che risale all’uomo delle caverne, quando la maggior forza fisica del maschio era necessaria a proteggere donne e bambini dall’ostilità della natura circostante.

Ora non ha più ragione di esistere, non abbiamo bisogno di essere salvate: andiamo al supermercato, non aspettiamo il ritorno dalla caccia, sappiamo attaccare un quadro, lavoriamo e siamo economicamente indipendenti, senza arma di ricatto. La donna ne sta prendendo consapevolezza ancora troppo lentamente, l’uomo è rimasto indietro e forse è anche per questo che non sa gestire la sua inadeguatezza, la sua rabbia nel perdere il controllo della situazione, della propria compagna e della propria vita, che sfocia in violenze e in femminicidi. E la cultura, intesa come diploma, o laurea, non basta.

E’ un intero modello che bisogna mettere in discussione, ma mettersi in discussione, mina certezze su cui fondiamo la nostra quotidianità. Non è facile, ma bisogna lavorarci. Iniziando dalle scuole e dalla famiglia.

Francesca Sammarco

One Comment

  1. Giuliana calastri 14 agosto 2024 at 6:52 - Reply

    Eccezionale, una disamina perfetta.palpebre che finalmente si aprono nel modo giusto, i miei complimenti

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