MILANO – Orfeo, figlio della musa Calliope e di Apollo o di Eagro re della Tracia, rappresenta il prototipo del poeta per eccellenza e la personificazione stessa del canto. Narra il mito che con il suono della lira, le sue melodie e parole riuscisse ad ammaliare gli uomini, ammansire gli animali feroci di ogni specie, spostare alberi, rocce enormi e perfino il mare. Per questo, in tutti i secoli, tanti artisti si sono identificati in lui, rivisitando le sue vicende con una personale interpretazione.
La notorietà del personaggio è legata però soprattutto alla tragica vicenda con Euridice, sua amatissima moglie. Virgilio scrive nelle Georgiche che la morte della ninfa fu causata da Aristeo che la perseguitava con le sue attenzioni, finché una volta la giovane e bella ninfa per sfuggirgli calpestò un serpente che la uccise col suo morso. Orfeo, lacerato dal dolore, scese allora negli Inferi per riportarla nel mondo dei vivi. Nella sua catabasi fece ricorso alla musica per sconfiggere i mostri infernali; riuscì ad incantare Caronte e placò anche Cerbero, il terribile cane tricipite guardiano dell’Ade.
Alla fine raggiunta la sala del trono, incontrò Ade e Persefone; Ovidio racconta nelle Metamorfosi come il mitico musico facesse ricorso alla lira e al canto per impietosirli. Scossi per le forti emozioni suscitate, Ade e Persefone esaudirono il suo desiderio e chiamarono Euridice. Sulla soglia degli Inferi, contravvenendo a quanto stabilito e temendo che l’amata non lo stesse più seguendo, il poeta si voltò ed Euridice venne così relegata definitivamente nell’Oltretomba. Tornato sulla terra, diede voce al suo dolore raggiungendo l’acme delle possibilità artistiche e, secondo la versione virgiliana, le donne dei Ciconi quando videro che la fedeltà del Trace nei confronti di Euridice non si piegava, in preda all’ira ed in osservanza dei culti bacchici cui erano devote, lo fecero a pezzi (sparagmòs /σπαραγμός) e ne sparsero i resti per la campagna, mentre gettarono la sua testa con la lira nel fiume Evros.
Mito splendido, espressione tra le più significative del valore dell’arte che riesce perfino per una piccola frazione di tempo a vincere la morte fisica, ma soprattutto travalica la finitudine dell’esistenza umana, trionfa sul disfacimento della materia e dà immortalità al pensiero, ai sentimenti, alle emozioni dei mortali. Si può, di conseguenza, ben comprendere il timore che ha generato l’arte con la sua forza ed il suo messaggio di non-violenza in tutti i regimi totalitari presenti e passati e quanto dolore ed orrore suscitino i roghi di libri, di strumenti musicali e, nefandezza aberrante estrema, di esseri umani! La mente va inevitabilmente al secolo più martoriato, a quel Novecento che si è caratterizzato per genocidi, per regimi totalitari di diversa ideologia, per campi di morte, in cui sono stati internati i diversi, gli artisti, gli oppositori politici e tutti coloro che appartenessero a razze o gruppi etnici ritenuti inferiori.
Richard Wagner, in “Il giudaismo nella musica” (Das Judenthum in der Musik), contrapponeva la musica “tedesca” a quella “ebraica”; ma i musicisti perseguitati reagirono usando la loro arte come una forma di resistenza morale e uno strumento di denuncia dell’oppressione; è del resto documentata una vasta produzione proveniente dai campi di sterminio e quel senso di pietas, che mai dovrebbe affievolirsi, ci obbliga a ricordare la criminale usanza di far “accompagnare” con un brano musicale eseguito dai detenuti, altri detenuti condannati a morte. L’attualità, purtroppo, non è ancora affrancata da simili crimini e nei giorni scorsi il web ed i giornali hanno riportato dall’Iran notizie di roghi di strumenti musicali, di balli misti proibiti e puniti con il carcere, di artisti uccisi o rieducati e costretti ad abiurare alla loro arte a suon di frustate e umilianti torture.
I Talebani interpretano in chiave fondamentalista l’hisbah, concetto del Corano che invita ad apprezzare ciò che è giusto ed a disprezzare ciò che è sbagliato per migliorare se stessi ed il contesto in cui si è inseriti, pertanto il famigerato ministero per «la promozione della virtù e la repressione del vizio» ha deciso a priori che cosa sia giusto e che cosa non lo sia ed è notorio con quali strumenti i suoi esponenti procedano poi nella “rieducazione”.
Notizia sempre dello scorso luglio, ma questa volta proveniente dalla Carolina del Nord dove in vista del loro concerto di settembre, nella città di Winston-Salem, sui Tinariwen sono piovute violente minacce e commenti razzisti tramite diversi social media. I Tinariwen sono una band di musicisti sahariani tuareg proveniente dal nord est del Mali. La campagna di odio immotivato che li ha visti oggetto dell’accusa di essere terroristi islamici ha alla base una totale mancanza di informazione, dal momento che se gli “odiatori” avessero fatto una veloce ricerca sulla band, sul popolo dei Tuareg e la loro storia, avrebbero scoperto che i componenti del gruppo hanno visto uccidere i loro cari, sono stati perseguitati per tutta la loro vita e che, esuli essi stessi, hanno resistito all’estremismo islamico nell’Africa nord occidentale e si sono conosciuti proprio all’interno di campi profughi tuareg dell’Africa sahariana.
Qualsiasi commento diventerebbe a questo punto “stonato”; pertanto lasciamo ancora una volta il compito ad Orfeo, magari ammirando in silenzio il gruppo scultoreo di “Orfeo e le Sirene” (Mar-Ta, Museo Archeologico di Taranto). Si tratta di tre statue in terracotta a grandezza quasi naturale del IV secolo a.C. da poco recuperate nel patrimonio culturale nazionale. Trafugate dopo uno scavo clandestino in un’area archeologica del tarantino negli anni settanta ed esportate quindi illegalmente negli Stati Uniti d’America, erano state acquistate dal ‘Paul Getty Museum’ di Malibu (Los Angeles-USA). Ora possiamo ammirare questo capolavoro di inestimabile valore e rapiti dalla magia della musica e della poesia, comportiamoci proprio come le sirene incantate e silenti davanti ad Orfeo.
Adele Reale
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