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Santoro: quante bugie sulle guerre “giuste”…

di | 2023-06-19T09:34:50+02:00 18-6-2023 5:35|Attualità, Sezione 8|0 Commenti

RIETI – “Quando Putin ha invaso l’Ucraina la prima sensazione che ho provato è stato l’orrore. Poi è subentrata l’impotenza. Da giornalista, in ogni guerra ho cercato di capire cosa stesse succedendo e di trasferire agli spettatori con onestà le informazioni che raccoglievo. Le mie trasmissioni sono state importanti per un pezzo di opinione pubblica; non hanno mai raccontato gli avvenimenti dal punto di vista dei governi, ma ciò nonostante non le definirei di minoranza. I fatti cambiano a seconda della prospettiva dalla quale li osservi; io li ho sempre guardati con gli occhi di chi considerava la guerra il più grande di tutti i nemici. E in molti casi era la maggioranza delle persone a pensarla così. Soprattutto le più umili, che delle bombe vedono pagare sempre il prezzo di quelli come loro”.

Inizia così il libro di Michele Santoro “Non nel mio nome” (Marsilio Ancora) e in quelle 126 pagine (un j’accuse che chiama in causa tutti, per ridare un senso alla parola democrazia ripartendo dalle domande giuste) c’è tutto il Santoro che conosciamo: un fiume in piena di riflessioni e di domande e più che leggerlo, sembra di sentirlo parlare, quasi seduto accanto a noi, tanto è diretto e partecipato il suo esprimersi. Così come la festa con mortaretti per un matrimonio in Afghanistan, lo scorso anno, che i satelliti scambiarono per un convegno di terroristi, sparando su tutti i commensali e un bambino imprigionato nel cratere che chiedeva aiuto.

“In Italia uno strazio simile lo abbiamo vissuto per una scuola crollata a causa di un terremoto, per il piccolino (Alfredino Rampi ndr) precipitato in un pozzo. Il nostro cervello ha ricevuto dal televisore violente scariche elettriche e cosa abbiamo pensato?: ‘Dio mio, cosa posso fare? Devo fare qualcosa, ma cosa? Correre in soccorso. Protestare per i ritardi. Piangere. Urlare’. La televisione è un prolungamento del nostro sistema cerebrale, le cose che vediamo è come se le stessimo vivendo ‘direttamente’. Nel caso del bambino afghano, però, le telecamere non c’erano, non vedevamo e non abbiamo sentito la sua atroce sofferenza”.

Santoro descrive il suo smarrimento per le prime bombe sull’Ucraina e quella famiglia distesa sull’asfalto con la gabbietta del gatto accanto, cita le parole di Gino Strada: “Il 90% delle vittime della guerra sono civili, io non sono pacifista, sono contro la guerra che non è mai una risposta, è sempre una bugia. Con un F-35 ci fai mille posti di terapia intensiva”. “Oggi direbbero di lui che è un putiniano?”, si chiede Santoro. “Mi sono sempre preso a cazzotti con la narrazione dominante e ho imparato che basta un punto interrogativo per metterla in discussione: può avere un effetto deflagrante. E io da giornalista ne ho sempre messi molti di punti interrogativi”.

Hiroshima e le oltre duecentomila vittime civili non sono bastate? e cita Einstein: “L’uomo ha creato ciò che nessun topo si sarebbe sognato di inventare, una trappola per topi e la molla è un pulsante in mano alle superpotenze. Si chiama ‘equilibrio del terrore’: la minaccia sospesa sulle nostre teste e con la quale conviviamo”. Così Santoro, per vincere la depressione e il senso di impotenza, ha chiesto a Giovanni Floris di partecipare come ospite a Di Martedì per continuare a porre degli interrogativi e ha scritto questo libro, in cui, fra l’altro, ricorda l’11 settembre 2001, l’incredulità di tutti, la diretta improvvisata, una serie di trasmissioni chiamate ‘Emergenza guerra’.

Perché si diventa terroristi? Con Riccardo Iacona inviato a Jenin, città palestinese della Giordania, dalla quale proveniva un numero impressionante di kamikaze: “Non siamo mai stati bene – risponde la madre di uno di loro – Siamo poveri ed eravamo poveri anche prima. Ma la speranza ci teneva in piedi: un giorno sarebbero stati riconosciuti i nostri diritti, avremmo avuto una patria e sarebbe venuta la pace. Poi ti accorgi che la pace non viene mai. Gli israeliani bombardano, ti tolgono le terre, l’acqua, la corrente elettrica e la speranza. E decidi di farti esplodere. Prepari la bomba e ti fai saltare in aria. Non solo con l’esplosivo, con chiodi, schegge e qualsiasi cosa possa seminare morte, distruzione, dolore. Io piango per mio figlio e soffro per quelle madri israeliane che per colpa sua hanno perso i loro ragazzi. Se avessi tra le mani quelli che lo hanno convinto a fare quello che ha fatto li strozzerei. Però lo dobbiamo capire: se togli a qualcuno la speranza, anche un gattino può diventare una belva feroce”.

Vale per un palestinese e anche per Putin, il nuovo zar: se li chiudi in un angolo e non gli offri una via d’uscita possono decidere di far saltare tutto. “Quello che serve è riaccendere la speranza, un diritto al quale nessuno dovrebbe mai rinunciare”. Le bugie su Saddam che armava Bin Laden, la fuga degli americani dall’Afghanistan, abbandonando nelle mani dei fondamentalisti una popolazione che nelle promesse di democrazia ci aveva creduto e prima ancora la guerra del Vietnam. Le industrie delle armi si sono ingrassate, mentre la guerra per il controllo del petrolio e delle risorse energetiche continua in forme diverse. Un miliardo e mezzo di persone all’inizio di queste guerre viveva con un dollaro al giorno: “Bombe, mine, missili e kalashnikov hanno migliorato la loro condizione di vita? La democrazia si è estesa? L’amore per l’Occidente è cresciuto? Il terrorismo è stato definitivamente sconfitto?”. Punti interrogativi che meritano una risposta, se non vogliamo ripetere gli stessi errori.

E ancora: “Contro chi dovrei scendere in piazza? Per quale obiettivo? Vogliono farci credere che ci sarà un vincitore. Io penso che non ce ne sarà nessuno. Penso che ci sia un nemico più grande di Putin, la guerra, e che dobbiamo fermarla”. Il libro si chiude con una speranza: “Sono sicuro che esiste un’altra strada da percorrere, un partito che non c’è da costruire. Con i referendum, le nuove tecnologie, con luoghi ideati per incontrarsi e unirsi. Anche se adesso sembra impossibile, i giovani torneranno a credere di dover salvare il mondo e saranno loro a costringerci ad agire. Dobbiamo metterci in cammino con la forza e la determinazione dei migranti che attraversano il deserto. Non sanno cosa incontreranno durante la traversata ma gli è chiara la meta. Il nostro è un mondo nuovo senza guerra”.

Francesca Sammarco

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