MILANO – Nella scena più violenta della tragedia “Agamennone” (Ἀγαμέμνων, Agamémnon, Eschilo, 458 a.C.) campeggia muta la figura di Cassandra. Dopo la caduta di Troia, nella ripartizione del bottino di guerra la giovane profetessa era stata assegnata ad Agamennone che ne aveva fatto la sua concubina. Il vincitore è con lei sul carro con cui entrano nella reggia di Argo dove li attende l’infedele Clitemnestra che, fingendo amore coniugale, lo saluta ipocritamente e lo convince ad entrare nel palazzo, quindi invita a scendere anche Cassandra. La sacerdotessa non obbedisce, rimane in silenzio e, dopo l’allontanamento della regina, inascoltata profetizza l’imminente regicidio. Di lì a poco si leverà il grido di Agamennone, colpito con una scure da Clitemnestra aiutata dal suo amante Egisto; seguirà l’assassinio di Cassandra.
L’infelice profetessa, figlia di Priamo ed Ecuba, è una figura cantata da tantissimi autori, studiata in tutte le scuole di drammaturgia e portata in scena migliaia di volte, dal momento che la sua vicenda è l’emblema, senza tempo e senza luogo, della violenza, dello stupro, della profonda ingiustizia delle guerre in cui non c’è spazio per nessuna manifestazione di umanità. Proprio come nel libro “Cassandra a Mogadiscio” di Igiaba Scego, pubblicato recentemente e candidato al premio Strega. L’autrice, nata a Roma da una famiglia di origini somale, scrive questo memoir sotto forma di lettera alla sua amatissima nipote Soraya, che vive in Canada e si esprime solo in inglese, per invitarla a studiare la lingua italiana e poter così ricucire il legame spezzato con la nonna (sua madre) e le sue radici.
La lingua dei colonizzatori diventerebbe, così, la lingua comune ed il tramite per ricostruire la storia della sua famiglia e di tutto il “diasporico” popolo somalo. In questa speciale autobiografia si fondono così la piccola storia familiare dell’autrice con la grande Storia, i cui protagonisti inglesi, italiani, milizie di Barre, sono raccontati dal punto di vista dei conquistati. La narrazione degli eventi procede, come afferma la stessa Scego, in maniera “schizofrenica” e pertanto non segue un ordine cronologico, né topologico. Le ambientazioni, icasticamente rese, spaziano da Mogadiscio, a Roma, al Canada, partendo dal “badio”, in somalo boscaglia, dove è cresciuta sua madre.
Guidato dalla regia delle sensazioni e dei ricordi riemerge, senza consequenzialità apparente, tutto il sommerso e così le infibulazioni subite dalle bambine somale, gli stupri perpetrati impunemente da tutti i dominatori, le città rase al suolo, la fame, la prostituzione erompono con la forza devastante dei kalashinikov che gli ultimi carnefici, i famigerati berretti rossi della dittatura ventennale (1969 -1991) di Barre, ricevevano direttamente dalla Transnistria (tornata recentemente sulle pagine dei giornali, come patria di secessionisti aggrappati ai resti del “sogno sovietico”). Le lettere di un alfabeto che la mamma, analfabeta testimone orale, non sa decifrare (bellissima la pagina in cui si parla dell’alfabeto orale e diverso della vita!), danno visibilità all’annientamento sistematico e passato quasi sotto silenzio di un popolo, alla sua guerra ignorata che ha “disperso al vento” con gli uomini anche la loro cultura e perfino le loro ossa.
“È la memoria che si fa carne” nel momento in cui la Scego passa il testimone, attraverso la parola narrata, alla nipote. Il filo rosso di tutto il libro è un termine somalo, “jirro” , che vuol dire malattia, nostalgia, stato d’animo che accomuna i cuori inariditi e sradicati di chiunque sia stato costretto a trasferirsi in un mondo/altro che non lo accetta e non conosce né rispetta il suo passato. Nel corso del romanzo il “jirro” si connota per forme diverse, ma è sempre l’elemento chiave per capire i Somali che vengono da un paese sempre vivo nel rimpianto e tuttora straziato dai conflitti, distrutto dall’inquinamento ambientale, dilaniato dai “signori della guerra” che controllano il traffico delle armi insieme con le esistenze degli abitanti.
L’autrice alterna la descrizione nostalgica di paesaggi e di aspetti della tradizione africani con quella di eventi e luoghi della sua città di nascita spaziando dalla Roma della “dolce vita”, agli anni di piombo, a quelli delle stragi di mafia. Un luogo funge da incontro /scontro tra le due culture: il Museo Coloniale, riaperto all’interno del Museo delle Culture- EUR, in cui si augura che gli oggetti strappati al suo popolo possano tornare ad essere la loro memoria condivisa in una sorta di nuovo museo del decolonialismo: dal sacco di fagioli di una specie locale, al pettine artigianale in legno, alla pelle di leopardo che correva libero nella savana prima di divenire prezioso tappeto nelle bianche case degli italiani a Mogadiscio, alle foto di tante donne, con la fierezza passata dei loro volti, scattate nei bordelli frequentati da soldati di eserciti diversi, ma tragicamente uguali; ai calchi facciali modellati dall’antropologo di regime Lidio Cipriani su indigeni vivi, materiale utile per la teorizzazione della inferiorità della razza “negra” africana.
Il libro è una miniera inesauribile di ricordi con un lessico alterno, ma con una carica di pathos costante. Violento, crudo, realistico, intriso di sangue, sudore, paura quando rievoca il mondo somalo, più cronachistico e meno duro quando si riferisce all’Italia e al resto del mondo. Il tono si fa poi lirico quando la morte strazia le persone più vicine all’autrice o la guerra recide i legami più stretti e continua a stravolgere la sua fisicità con attacchi di vomito violento quanto i proiettili “AK-47 di un fucile automatico”. Di fronte al corpo senza vita di suo padre “luminosa figura di diplomatico e uomo di cultura, figlio di uno degli interpreti del generale Graziani e dei padroni della Somalia” costretto poi a fuggire agli inizi della dittatura di Barre, pensa tra le lacrime che egli ora sia “in cammino lungo la linea dell’infinito. Un viaggio di cui noi viventi non sappiamo nulla”, o ancora quando nell’aeroporto di Roma rivede sua madre, cresciuta nel badio in una tribù nomade e poi inghiottita dalla guerra civile per due anni, ma non riesce neanche ad abbracciarla.
In questo apocalittico scenario solo le pagine finali segnano finalmente un riscatto, lasciano intravedere una luce: Igiaba Scego, che ama la musicale “lingua di Dante”, riesce a lenire un po’ il suo “jigo”, nonostante il timore di una probabile cecità, proprio grazie alla scrittura, “all’alfabeto delle lettere” ed invia a sua nipote Soraya ed a tutti i giovani un messaggio d’amore per non dimenticare e costruire un futuro diverso.
In fondo Cassandra con le sue profezie tanto veritiere, quanto inascoltate “aveva ragione su tutto […] perché la storia può toglierci la casa, ma non la voce; può accecare i nostri occhi, ma mai, mai, mai la nostra memoria”.
Adele Reale
Nell’immagine di copertina, le terribili distruzioni durante la guerra in Somalia negli anni Novanta
Lascia un commento