PISA – La “casa della mulatta” era un edificio misterioso che stava in una via vicino al cavalcavia, nel quartiere San Giusto, a Pisa. Negli anni ’60 questa strada era isolata e dove essa terminava diventando campagna c’erano dei prati, meta di bambini che nei pomeriggi assolati ci andavano a giocare a pallone. La casa era l’ultima e si presentava alla vista proprio come una propaggine dell’abitato, messa lì per starne fuori e per questo riusciva difficile pensare che qualcuno, appunto, ci abitasse. Stava a margine, o meglio emarginata. Ci abitava una donna con sua figlia: due donne irrimediabilmente sole.
Le due si facevano vedere poco e non parlavano con nessuno ma del resto nessuno rivolgeva loro la parola. Però era chiaro che quel soprannome, la casa, l’aveva preso dalla più giovane delle due. I bambini erano stati ammoniti dalle mamme a non avvicinarsi a quello strano posto, un manufatto squadrato ed essenziale che aveva l’ambizione di sembrare una villetta ma non lo era. Tuttavia ci giravano parecchio intorno e così l’avevano vista: era lei, la figlia, la mulatta da cui prendeva il nome la casa. Si trattava di una giovane sui 25 anni, bella, dignitosa e severa, ben vestita ma soprattutto dalla pelle scura.
Gli adulti, ai bambini che chiedevano conto di quella strana coppia che sembrava aver ricevuto l’anatema della comunità, spiegavano che la più matura delle due era stata violentata dai soldati di colore in tempo di guerra e la ragazza era nata da quel fattaccio. Questo era ciò che si sapeva, il discorso finiva lì e sembrava non si potesse dire altro a riguardo. I bambini sapevano che non dovevano chiedere. Nessuno tentava mai con le due donne un approccio e loro sapevano che non dovevano cercarne: si ritiravano e chiudevano porte e finestre appena vedevano qualcuno.
A quei tempi, probabilmente, in molti luoghi d’Italia esistevano situazioni come questa di Pisa. In Toscana, nel Lazio (moltissimi casi nel frusinate) e in Sicilia i figli “mulatti” erano stati il doloroso strascico di un orrore perpetrato ai danni di tante donne alla fine della seconda guerra mondiale. Quella del quartiere San Giusto era una situazione emblematica di quanto era avvenuto a seguito di una pagina vergognosa della nostra storia, compiuta da chi, invece, viene ancora considerato ufficialmente autore della liberazione d’Italia dal nazismo. Fu uno stupro di 50 ore concesso in “premio” ai soldati nordafricani (soprattutto marocchini), arruolati nell’esercito francese, nostro “alleato”.
Furono fatti gravissimi, di una violenza inaudita e con ripercussioni pesantissime sulle vittime che ancora oggi non hanno avuto alcun un risarcimento dallo Stato. Vite distrutte da violenze individuali ma anche di gruppo che a volte durarono ore o giorni come a saziare una fame atavica e bestiale ingiustificabile. L’esercito francese in quei giorni – era il maggio 1944 – fece man bassa di tutto: saccheggi, razzie, distruzione. In pratica, la vita umana ridotta a bottino di guerra. La “liberazione” ebbe un costo pesantissimo per la popolazione italiana ma soprattutto per migliaia di donne e bambine (il numero esatto non si è mai saputo ufficialmente), che per 50 ore furono ad uso e consumo di soldati di colore scalmanati.
Ciò che successe è noto (ma non abbastanza), con il nome di “Marocchinate”, un fatto trattato con troppa discrezione dai libri di storia anche se raccontato senza filtri in alcune opere cinematografiche tra cui spicca il film “La Ciociara” interpretato da Sofia Loren e diretto da Vittorio De Sica. Dal 2015 Ariele Vincenti (con un monologo scritto a quattro mani con Simone Cristicchi), sta portando in giro per l’Italia una ricostruzione teatrale di quei fatti orribili in cui migliaia di donne furono barbaramente violentate, molte rimasero incinte e partorirono figli di colore, altre abortirono per i danni subiti o perché non sopportarono la vergogna. Molte si suicidarono o si ammalarono.
Nello spettacolo di Ariele Vincenti, che è stato a Roma fino a domenica scorsa, la vicenda è raccontata con gli occhi di un uomo cui viene strappata la fidanzata, Silvina, che lui poi riuscirà a sposare. Nel suo racconto, Vincenti entra anche dentro molte storie familiari e nei diversi risvolti della vicenda: le sofferenze psicologiche e fisiche, il ripudio di molte donne da parte di mariti che le accusarono di “essersela andata a cercare”, la diffidenza della comunità e il loro allontanamento da essa. La “casa della mulatta” a San Giusto doveva essere una delle tante situazioni di emarginazione scaturite da quella barbarie.
E mentre per gli alleati furono costruiti monumenti, le loro vittime dopo 70 anni non hanno ancora ricevuto giustizia. Neanche quella morale.
Gloria Zarletti
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