Il doppio “cold case” del Rinascimento resta irrisolto e forse lo sarà per sempre, a meno che non emergano nuove carte dagli archivi antichi.
Di certo già tra i contemporanei la tragica fine dei due intellettuali della corte di Lorenzo il Magnifico fece nascere inquietanti interrogativi. Chi aveva interesse a togliere di mezzo i due personaggi, giovani ed in buona salute?
Il “cui prodest” indirizza sulla strada del figlio del Magnifico, Pietro il Fatuo, che, proprio il giorno del decesso di Pico, che aveva appena indossato l’abito dei domenicani, fece entrare in Firenze, senza colpo ferire, Carlo VIII, re di Francia, suscitando sdegno unanime tra i fiorentini, tanto da essere “cacciato” di lì a poco, dal governo. Morirà anche lui, in maniera violenta, durante la battaglia del Garigliano, affogando nelle acque del fiume, a Minturno (1503).
Perché “il Fatuo” avrebbe dovuto sbarazzarsi di un intellettuale come il giovane conte, che non coltivava interessi politici, ma solo filosofici e teologici? Perché sia lui, sia Agnolo Poliziano si erano avvicinati al domenicano fra Girolamo Savonarola (morto, poi, sul rogo per eresia nel 1498) ed al suo disegno di una repubblica teocratica, durata poco tempo.
Pico – noto ancora oggi per la sua prodigiosa memoria, ma anche apprezzato filosofo – era un esponente spicco della Nuova Accademia Platonica di Firenze, quella che dettò i principi dell’Umanesimo e del Rinascimento, ma al tempo stesso era un cultore della magia e della cabala ed era finito sospettato persino di eresia.
Tanto da esser costretto a fuggire ed a riparare in Francia – prima a Grenoble e poi a Vincennes – dove, però, fu gettato in cella inseguito dalle stesse imputazioni (fuga dall’ortodossia cattolica), sebbene quasi subito venisse rimesso in libertà. Ottenne, poi, dal nuovo papa Alessandro VI, il Borgia, una assoluzione piena e definitiva. Sta di fatto che a Piero il Fatuo (ed ai suoi sodali) urtava fortemente, che gli amici di suo padre, il fior fiore dell’intellighenzia fiorentina e italiana dell’epoca, passassero, sia pure per motivi religiosi e spirituali, dalla fazione delle “Palle” dei Medici al partito dei “Piagnoni”. Sia chiaro: è solo un sospetto, però molto credibile.
Ad alimentare la pista del delitto politico, anche la stessa fine toccata al Poliziano, al secolo Agnolo Ambrosini (1454-1494) di Montepulciano – da cui il nomignolo di Politianus -, il 29 settembre di quello stesso anno 1494. Poeta e filosofo, “anima” dell’Umanesimo, precettore di casa Medici (ed anche dello stesso Piero), segretario particolare del Magnifico, docente dello Studium Florentinum, il letterato era arrivato Firenze, ad appena 15 anni, dopo il brutale assassinio del padre, il giurista Benedetto (la madre era una Salimbeni, Antonia, di Siena), legato alla grande famiglia dei banchieri fiorentini ed era stato accolto nel palazzo di via Larga (oggi corso Cavour). Ordinato perfino sacerdote, Agnolo conseguì pure il titolo di canonico di Santa Maria in Fiore. Fu lui ad aiutare Lorenzo a sfuggire alla congiura ordita dai Pazzi (e dal papa Sisto IV) ed a rendere noti gli empi fatti (nel “Pactianae coniurationis commentarium”) di quella sanguinosa Pasqua del 26 aprile 1478, consumati tra le navate della cattedrale. La morte del Magnifico (narrata, anche questa, dal poeta in una lettera ad un amico) spinse il Poliziano ad avvicinarsi alle idee riformatrici del Savonarola. Sui suoi resti una equipe di antropologia ossea, guidata dal professor Giorgio Gruppioni dell’ateneo felsineo, ha evidenziato, pure in questo caso, un avvelenamento da arsenico. Troppe coincidenze, insomma.
Non mancarono le malelingue che puntando sul fatto che Pico fosse scapolo ed aveva modi ricercati ed affettati, parlarono di rapporti omosessuali tra i componenti del circolo di intellettuali. Tra questi ultimi anche un caro compagno di Pico, il poeta fiorentino Girolamo Benivieni (che scrisse l’epitaffio della morte dell’amico), indicato dalle voci maligne come suo amante. In realtà, otto anni prima del decesso, Pico era salito al centro della cronaca nera (e “rosa”) per aver rapito una bellissima donna, per di più sposata. Maggio 1486, il filosofo – appena ventitreenne – per preparare le 900 tesi, riguardanti tutte le scienze, da discutere in un convegno a Roma, che poi saltò aveva deciso di ritirarsi a Perugia (o meglio a Fratta, oggi Umbertide).
Ad Arezzo, dove stava transitando col suo seguito di studiosi (tra cui lo stesso Beniveni), di servitù e di soldati, il conte rapì Margherita (che invaghita di lui, in realtà era consenziente e lo stava attendendo davanti ad una delle porte aretine), maritata a Giuliano di Mariotto de’ Medici, collaterale della famiglia fiorentina ma residente ad Arezzo, dove svolgeva le funzioni di gabelliere (riscossore, cioè, delle tasse). Quando il funzionario si accorse della sparizione della consorte si mise, comprensibilmente irato, alla testa di un centinaio di sgherri e in un paese della Chiana raggiunse la comitiva del conte. I soldati e famigli di Pico, una trentina in tutto, furono quasi tutti massacrati e lo stesso filosofo, venne preso prigioniero. L’intervento del Magnifico sul parente cornificato fu immediato e salvò l’intellettuale da guai ben maggiori. Qualche cronista dell’epoca, nelle maliziose corti italiane, fece notare che anche i santi, talvolta, si erano fatti “infiammare da Venere”.
Insomma: il bel conte amava le donne. E le risultanze scientifiche pongono su un piano più politico e di potere, che non mondano, queste morti tragiche, improvvise e choccanti.
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