ROMA – Irregolare, rappresentato in un linguaggio non aulico, irrituale, con una prospettiva non applicata correttamente e un punto di vista inedito per una composizione di questo tipo: i piedi feriti, precisamente visti da sotto le piante. L’opera, anzi il capolavoro in questione è il “Cristo morto” di Andrea Mantegna, oggi alla Pinacoteca di Brera, a Milano, ma realizzato dall’artista probabilmente per la sua stessa cappella funeraria intorno al 1480.
La tela rappresenta il corpo senza vita deposto su una lastra di marmo e coperto da un sudario in un ambiente angusto che vuole ricostruire il sepolcro. Il pallore delle membra suggerisce il freddo della morte mentre tutto, intorno, richiama dolore e sofferenza. Lo sguardo d’infilata dalla pianta dei piedi in su e i diversi fuochi che danno un orizzonte diverso a seconda di cosa si guardi nella composizione sono un “unicum” nella pittura di quel periodo ma questa novità assoluta farà da modello a composizioni successive in cui il riferimento è palese.
Possiamo citare il “Cristo morto” di Lelio Orsi nella Galleria Estense di Modena che di lì a poco riproporrà lo stesso schema e, in pieno Rinascimento, la tela con lo stesso soggetto di Annibale Carracci a Stoccarda. Questa immagine del Cristo visto dai piedi, però, è rimasta impressa nella storia dell’arte e ritorna come citazione colta in film di Pasolini come “Mamma Roma” del 1962, in “Il bacio di Giuda” di Paolo Benvenuti del 1988, o in scatti fotografici celebri come quello che ritrae il corpo senza vita di Che Guevara. La suggestione del classico di Brera è innegabile.
Oltre alla bellezza di questo dipinto, però, ai suoi interessanti particolari tecnici, al virtuosismo di certe soluzioni, quello che colpisce è la sua capacità di trasmettere l’emozione legata alla situazione rappresentata, la sua empatia che non può lasciare indifferenti. Molto può dire, a proposito del carico emotivo di questo dipinto, il volto di Maria: non la solita figura femminile gradevole, giovane, bella. C’è molto di più. Qui la Madonna è la madre – una qualsiasi madre – sfinita di fronte al corpo senza vita del figlio. E’ una donna che non ha speranza di trovare un motivo per andare ancora avanti, che non accetta questa perdita, questo sacrificio, che non lo comprende come nessuna donna, quando succede, riesce a farlo.
Mantegna nel dolore di Maria ha rappresentato il rapporto strettissimo che lega ogni donna alla sua creatura, l’irrimediabilità della morte che mette fine a tutto, anche alla speranza. La Maria di Mantegna è ogni donna che ha partorito ma è stata privata per sempre del suo frutto, cui è stato ucciso il figlio in guerra, o dalla mafia, dalla droga, o caduto sul lavoro. Il suo sguardo attonito, la sua bruttezza sciatta, le sue rughe e le sue occhiaie sono la manifestazione di un vuoto interiore che nessuno e niente potrà mai colmare.
L’assurdità di questo dramma che si ripete dalla notte dei tempi fino ai nostri giorni, le lacrime che ormai hanno bruciato gli occhi intenti su quel corpo come a carpirne l’immagine in eterno, l’atmosfera onirica capace di riportare in una qualsiasi camera mortuaria: un sentimento che non può non riguardare ognuno di noi che, a Milano, abbiamo avuto coraggio di fermarci davanti a quella tela.
Gloria Zarletti
Lascia un commento