/, Sezione 1/Capolarato, una piaga dolorosa

Capolarato, una piaga dolorosa

di | 2023-04-02T09:56:23+02:00 2-4-2023 6:00|Attualità, Sezione 1|0 Commenti

MILANO – “Siamo uomini o caporali?” è l’interrogativo che consente al “Principe”, alias Totò, di esprimere in maniera tanto semplice quanto esaustiva una filosofia di vita; l’interrogativo è presente in diverse sue opere, ma sempre con un identico significato: in una sorta di divisione manichea della società, da una parte ci sono gli uomini che lavorano duramente tutta la vita subendo ogni sorta di soprusi e vessazioni e dall’altra “i caporali” (superiori – graduati) che prevaricano ed umiliano i più deboli. Visione che ritorna nel film “Siamo uomini o caporali?” del 1955 espressa dal protagonista Totò Esposito che, condotto in un manicomio per aver reagito con violenza all’ennesimo sopruso, racconta allo psichiatra tutte le sue disavventure, anzi per dirla con la sua amara ironia le “pere-pezie”.

Nella pellicola tutti i personaggi negativi sono magistralmente interpretati da Paolo Stoppa, come a voler significare emblematicamente che i prepotenti di tutti i tempi, in fondo, sono uguali. In un’intervista rilasciata dopo il grande successo ottenuto nelle sale, Totò dichiarò: “Ai caporali ho contrapposto gli uomini, ossia le persone per bene, capaci anche di esercitare la loro autorità, se ne hanno, senza abusarne”. Abuso e sfruttamento che si riscontra, al contrario, nella società attuale nel cosiddetto “caporalato”, soprattutto nel settore primario senza distinzione di genere per gli addetti ai lavori.

Il termine, di etimo tardo medievale teso a sottolineare la funzione di capo (dal latino caput), fa riferimento ad un fenomeno diffuso su tutto il territorio italiano, ma che ha una maggiore presenza nelle zone più depresse economicamente, in cui i lavoratori sono più disponibili per disperazione ad accettare condizioni di lavoro meno tutelate. La storia dei caporali, quali mediatori illegali di manodopera, nella società moderna ha radici stratificate per almeno due secoli; nel corso dei quali questa figura è stata soprattutto legata ad attività stagionali che richiedevano un impiego intensivo di manodopera ed ha operato in paesaggi agrari, caratterizzati da insediamenti abitativi lontani dai campi. Tanto che l’iconografia di questi moderni schiavisti si compone di una piazza di un piccolo paesino, centro di raccolta dei lavoratori anche minorenni e bambini, e di un precario mezzo di trasporto che, ancor prima dell’alba e dopo il tramonto, conduceva questa umanità senza voce e senza diritti nei campi di lavoro, talvolta anche extra-regione.

Poteva capitare che durante il tragitto qualcuno morisse, che altri non ce la facessero per la fatica o che semplicemente sparissero per le violenze subite; la loro invisibilità sociale impediva di fatto qualsiasi intervento contro i loro aguzzini. Esemplari due “parentesi” di questa storia, sviluppatasi tra fine ‘800 e prima metà del ‘900: le mondine ed il loro “riso amaro” delle campagne del Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e le raccoglitrici dei “sciuri” cioè i fiori del gelsomino nei territori della Calabria e Sicilia. Il gelsomino era molto ricercato perché usato nell’industria cosmetica, da qui l‘impiego di molte lavoratrici che iniziavano i turni alle tre di notte e finivano in mattinata; mentre le mondine con le gambe immerse nell’acqua sino alle ginocchia procedevano ad estirpare (la monda) le erbacce infestanti; in entrambi i settori si stava sempre chini a piedi nudi e per molte ore, simili anche le misere paghe che si aggiravano intorno a poche lire.

Oggi queste figure sono scomparse per la meccanizzazione del lavoro o il cambiamento delle richieste del mercato e sono state quasi del tutto sostituite dai nuovi schiavi, arruolati dalle schiere dei migranti, a cui si fa ricorso nei periodi della raccolta di frutta e ortaggi e nella successiva fase di confezionamento legato alla commercializzazione. Va sottolineato, inoltre, anche un grave ritardo nella normativa, dal momento che soltanto nel 2016 è stata approvata la legge 199, contro lo sfruttamento nelle campagne. La strada è, tuttavia, ancora in salita, come si evince da un recente rapporto di ActionAid che denuncia, sulla base di numerose testimonianze, una realtà problematica e degradante fatta di lunghe giornate di lavoro con pause inadeguate, obbligo di svolgere mansioni faticose, scarsa attenzione alla salute fisica “fino ad arrivare a violenze e molestie, esercitate in diverse forme: verbale, fisica, psicologica e persino sessuale”.

Il problema coinvolge anche le migliaia di lavoratori extracomunitari che vivono nelle campagne e sono assoggettati alle condizioni dettate dai caporali; anche se questi ultimi, per così dire, si sono mimetizzati, in quanto in tutto il Paese i camioncini, su cui venivano stipati i lavoratori, stanno cedendo il passo a forme di intermediazione “liquida”, ristagnanti nel grigiore di un’amministrazione spesso farraginosa. L’Ispettorato nazionale del lavoro ha proprio per questo ampliato l’attività di controllo su tutto il territorio nazionale effettuando, dal 2019 al 2021, il 400% in più di ispezioni. Resta più problematica la condizione femminile per le disuguaglianze strutturali di genere, come la disparità salariale tra donne e uomini. Nelle campagne le donne arrivano a guadagnare anche solo 25/28 euro al giorno (talvolta anche meno), mentre gli uomini ne ricevono 40.

Si aggiunga la pratica dei datori di lavoro poco onesti che, dichiarando in busta paga un numero inferiore di giornate rispetto a quelle lavorate, impediscono ai loro dipendenti di accedere all’indennità di infortunio, malattia e disoccupazione agricola e per le donne anche a quella di maternità. Ne deriva una triste piramide di diritti negati che colloca alla base le donne straniere, poi gli uomini stranieri, quindi le donne italiane ed ai vertici gli uomini italiani. L’orologio della Storia sembra si sia quasi fermato ed abbia posto l’attuale realtà accanto a quella del mondo classico, la cui l’economia era basata essenzialmente sulla manodopera servile ed allo schiavo (servus) non si riconosceva alcun diritto.

Varrone (116-27 a. C.) lo definiva in De Re Rustica (L’agricoltura) “uno strumento parlante”, parte del corredo necessario per la coltivazione insieme agli utensili (strumenti muti) ed agli animali (strumenti semi-parlanti). Potente ed isolata la voce di Seneca (5 a.C.-65 d.C.) che, nella bellissima e famosa epistola XLVII, in “Epistulae morales ad Lucilium”, definisce gli schiavi “uomini, amici, compagni di vita e di schiavitù”, rivolgendosi all’amico Lucilio, ma in realtà a tutti i suoi contemporanei ed all’umanità intera. Alla martellante anafora iniziale con cui si ribadisce rozzamente che sono schiavi (servi sunt), l’autore controbatte con l’unica risposta possibile Immo homines (piuttosto sono uomini). Ed oggi, nel nostro mondo, dov’è l’uomo?

Adele Reale

 

 

Lascia un commento

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi