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Legge troppo rigida? Pazienza, è la legge

di | 2023-03-31T21:48:41+02:00 2-4-2023 6:05|Cultura, Sezione 2|0 Commenti

TARANTO – Secondo il Dizionario Treccani, per “legge” si intende «ogni principio con cui si enunci o si riconosca l’ordine che si riscontra nella realtà naturale o umana, e che nello stesso tempo si ponga come guida di comportamenti in armonia con tale realtà». Esistono leggi morali, divine, umane, tra le quali andrebbero considerate quelle fisiche, chimiche, biologiche, economiche e dell’ordinamento giuridico… Tutte però, secondo la definizione generale, dovrebbero risultare in consonanza armonica con la realtà oggettiva o con il sentire, storicamente determinato, dell’uomo.

In definitiva, espressioni come quella ulpianea «Quod quidem perquam durum est, sed ita lex scripta est», che tradurremmo con «Lo so, è duro da mandar giù, ma questo impone la legge», sono prive di senso, a meno che non si ammetta che esistono leggi giuste e leggi ingiuste o, se si vuole, obsolete. Queste ultime, però, possono – e devono! – essere cambiate.

È prassi corrente, nel mondo delle scienze naturali, sostituire o modificare una legge quando non risulti in armonia con la realtà: ciò che è valido per un fluido newtoniano come l’acqua, per esempio, non lo è per il dentifricio che usiamo quotidianamente o per il sangue che scorre nelle nostre vene. Più arduo è superare le inerzie dei sistemi economici e giuridici, ma, anche in questi casi, resta imperativo attivarsi, ove necessario ma senza indugi, per recuperare la doverosa consonanza armonica con la realtà sociale sulla quale quella legge interviene. Si potrebbero fare decine di esempi al riguardo, tutti di pressante attualità, ma è preferibile rivolgere lo sguardo al passato remoto e, con l’aiuto di Tacito, fare un balzo nella Roma di Nerone.

Una notte, Lucio Pedanio Secondo, praefectus Urbi (prefetto di Roma) in carica, venne ucciso da un suo schiavo. Il movente dell’omicidio non era chiaro: chi sosteneva l’aver il padrone negato la libertà promessa, per la quale si era già patteggiato il prezzo; chi invece giurava che si era trattato di un delitto passionale, giacché il padrone aveva ridotto a proprio amante un altro schiavo in precedenza legato sentimentalmente al suo assassino. A quei tempi il movente dell’atto criminoso non era rilevante, ancor più quando risultava chiaro chi fosse il colpevole.

Il Senato decise di avocare a sé ogni decisione in merito e si riunì, per decisione autonoma o per delibera imperiale, come corte di giustizia. È strano? No, perché occorreva decidere non sulla sorte dello schiavo, la cui condanna a morte era scontata, ma sull’applicabilità alla fattispecie del “senatoconsulto Silaniano”, vecchio di cinquantun’anni: questa legge stabiliva che, in caso di omicidio del padrone, non solo i colpevoli ma tutti gli schiavi che si fossero trovati sotto il medesimo tetto avrebbero dovuto essere condotti al supplizio. Il problema era che nella casa di Pedanio vivevano ben 400 schiavi! Dovevano essere tutti (uomini, donne, vecchi e bambini) prima torturati e poi crocifissi? Tutti, benché della loro innocenza si fosse certi visto che la premeditazione era stata decisamente esclusa?

L’imperatore Nerone

Tacito ci informa che la notizia della possibile carneficina di tanti innocenti aveva portato quasi ad una rivolta popolare (usque ad seditionem): un problema in più per il Senato, anche in considerazione del fatto che l’imperatore era molto sensibile agli umori del popolino e che, assai spesso, aveva avuto forti contrasti con diversi senatori.

Un senatoconsulto, si badi bene, poteva essere facilmente modificato da un altro senatoconsulto. Nessun problema formale: bastava decidere in tal senso…

Si aprì quindi un lungo ed approfondito dibattito, al termine del quale il Senato, a maggioranza, decise che andavano tutti giustiziati (praevaluit tamen pars, quae supplicium decernebat). Determinante fu l’intervento del senatore Caio Cassio Longino: «Già i nostri padri ebbero in sospetto la natura degli schiavi (suspecta maioribus nostris fuerunt ingenia servorum), anche di quelli nati negli stessi campi e nelle stesse case, che fin dalla infanzia avevano appreso l’affetto verso i padroni. A maggior ragione, noi, adesso, dobbiamo avere sospetto dei nostri schiavi, visto che ne possediamo di diverse nazioni (vero nationes in familiis habemus), che praticano costumi e riti religiosi diversi, oppure nessun rito (quibus diversi ritus, externa sacra aut nulla sunt): allora non ci resta altro, per tenere a freno questa massa amorfa, se non ricorrere alla paura (colluviem istam non nisi metu coercueris)».

Il popolo di Roma, con sassi e torce, prese allora ad assediare minacciosamente il Senato, sicché dovette intervenire l’imperatore in persona: Nerone ordinò alla guardia pretoriana di far rispettare la delibera senatoriale, presidiando il percorso di coloro che dovevano essere condotti al supplizio (omne iter, quo damnati ad poenam ducebantur, militaribus praesidiis saepsit).

È palese quale chiave ideologica venne utilizzata da Cassio per fugare ogni incertezza dovuta alla compassione o al timore di compiere un’ingiustizia: la paura. Incutere paura perché si ha paura: l’insieme delle diversità, delle non-romanità, delle inciviltà degli schiavi, rappresentava una contaminazione da cui difendersi con l’esercizio del terrore. Una chiave sempre attuale: i costumi evolvono, le leggi cambiano, anche se il legislatore avanza con il passo del pellegrino stanco, ma il fulcro ideologico più efficace sul quale fare presa resta il medesimo. La paura fa accettare, distogliendo il nostro sguardo altrove, anche la legge più ingiusta: occorre sconfiggere la paura se si vuole che le leggi e la realtà siano in armonia.

Riccardo Della Ricca

Nell’immagine di copertina, il Senato romano

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