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Ultras? No, sono soltanto teppisti

di | 2023-01-22T10:31:11+01:00 22-1-2023 6:00|Attualità, Sezione 1|0 Commenti

MILANO – “Era già in salvo dopo la prima carica degli hooligans, ma ritornò sugli spalti a soccorrere un bambino ferito (Andre Casula), restando travolto tragicamente dalla calca, per una nuova carica degli inglesi mentre era chinato a praticargli la respirazione artificiale”: è un estratto dalle pagine on line della Fondazione in memoria di Roberto Lorentini, medico. In quel nefasto 29 maggio 1985 la furia dei nuovi-barbari travolse, schiacciò ed uccise lui ed il bambino sconosciuto verso cui era accorso per prestare aiuto; avevano 31 e 10 anni e con loro morirono altri 37 tifosi.

La tragedia dell’Heysel

Heysel non è il nome di una battaglia ed i caduti non sono militari di nessun esercito, si parla degli spalti di uno stadio (ora “Re Baldovino”) nella città di Bruxelles e di tifosi inermi che si erano recati in Belgio per guardare la finale della Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool e tifare per la squadra del cuore, con la speranza di esultare per la vittoria e di poter vedere il capitano della propria squadra alzare al cielo la coppa. Il bollettino della polizia belga riportò, a fine disordini, le cifre drammatiche di quell’eccidio: 39 morti di cui 32 italiani ed oltre 600 feriti.

Sempre on line si può leggere l’elenco dei civili, morti in Italia a causa della violenza sportiva; i loro nomi sono affiancati da termini quali guerriglia, agguato, lancio di molotov, spranghe, bastoni ferrati, pugnali, resa dei conti, vendetta: non si tratta della cronaca di un inviato da uno dei tanti fronti di guerra ancora aperti; ma di ordinarie scene di follia ad opera di ultras e trasmesse da uno stadio o da una stazione di servizio o addirittura dal centro di Roma invaso e devastato, come accadde il 20 febbraio 2015 in occasione della partita Roma-Feyenoord, da migliaia di supporter olandesi ubriachi che assaltarono e danneggiarono la Fontana della Barcaccia del Bernini, in piazza di Spagna.

Naturalmente si tratta solo di teppisti e sicuramente non si vuole in alcun modo demonizzare uno degli sport più praticati, seguiti e amati né tantomeno puntare l’indice contro i tifosi “quelli veri” o sminuire la grande emozione che dà la vittoria della propria squadra e la bellezza dello spettacolo di folla che intona canti pro o contro i giocatori in campo… e pur tuttavia qualche riflessione è d’obbligo. Da sempre si è sostenuto da parte di filosofi e sociologi, come Sartre o Alberoni, che il calcio è metafora della vita, ancor più può essere considerato scuola di vita; con la sua pratica si può imparare fin da piccoli a operare in gruppo, ad abituarsi al sacrificio, ad essere responsabili, altruisti ed esempio per i propri compagni, a riconoscere e rispettare i ruoli, ad agire con lealtà.

Tesi corrette e condivisibili, ma oltre che esaminare e stigmatizzare fermamente la violenza di alcune frange di scalmanati, sarebbe forse il caso, nella similitudine “il calcio (più in generale lo sport tutto) è come la vita”, di soffermarsi sul secondo termine di paragone: la vita e l’attuale società e notare come in essa, talvolta e per alcuni, i modelli vincenti siano quelli negativi. La storia del calcio (The people’s game), nota a tutti, affonda le sue radici in un passato lontano, ma nel corso della sua evoluzione questo sport è divenuto nelle società moderne un “controllato decontrollo dei controlli”, per dirla con un’espressione del sociologo Norbert Elias. Egli sostiene, infatti, che all’interno di un tipo di società orientata sempre più a “sanzionare negativamente ogni manifestazione pubblica o privata di emotività incontrollata, lo stadio ha finito con l’essere considerato una sorta di enclave in cui è socialmente consentito, a certe condizioni, conservare un comportamento moderatamente esaltato”.

In questo luogo l’ostilità, sostiene ancora lo studioso, tra tifoserie opposte ed oltranziste può essere esibita e viene ritualizzata quasi si trattasse di una guerra simulata, durante la quale gli ultras si affrontano, si scambiano invettive, insulti, minacce; il tutto ritmato, come sul campo di battaglia delle guerre antiche, dal rullo dei tamburi. Il confine, purtroppo, tra la violenza ritualizzata e quella reale risulta talvolta assai labile e non è infrequente che si passi all’azione; più recentemente, per effetto delle misure di ordine pubblico, la violenza si è spostata sempre più al di fuori degli stadi, prima e dopo la partita. Va, inoltre, ribadito che in un quadro, come quello attuale in cui oltranzismo e violenza nelle azioni e nella comunicazione sono un paradigma comportamentale molto accattivante per tanti, risulta praticamente inevitabile che per gli ultras non sia sufficiente più soltanto la gioia della vittoria e del confronto leale, ma prevalga il revanchismo fino all’eliminazione violenta dell’avversario.

Gli scontri di Arezzo

Ne sia riprova il fatto che i regimi politici totalitari abbiano sempre tentato di utilizzare lo sport per incanalare le passioni collettive che esso suscita a favore del rafforzamento delle identità nazionali, pericolose se vissute e percepite in accezione negativa come sovranismi. Negli incontri internazionali e soprattutto nei campionati del mondo la posta in gioco, infatti, non è solo la vittoria, ma ben altro: si pensi soltanto al recente campionato svoltosi in Qatar, dove il bavaglio è stato posto ed imposto a qualsiasi altra questione che toccasse il “fuori campo” e dove i successi della squadra del Marocco hanno unificato il “sentire” del mondo arabo, più di qualsiasi missione diplomatica o azione politico/militare.

In definitiva, quello degli ultras può essere spiegato come una sorta di microcosmo deprivato e violento che riproduce, estremizzandoli, alcuni aspetti della società attuale. Il fair play, infatti, viene spesso tradito anche in campo, sugli spalti e da molti campioni che, forti dei loro milionari ingaggi, più che essere da esempio spesso contestano qualsiasi decisone; contravvenendo così ad una lezione importante nello sport quanto nella vita: rispettare le regole sancite, condivise, uguali e valide per tutti. Nella Grecia classica, quando il sacro fuoco di Olimpia ardeva, le armi tacevano e vigeva la tregua olimpica (ἐκεχερία / ekekerìa); si rispettava chiunque partecipasse ai giochi, fossero atleti o spettatori che dovevano attraversare territori nemici per recarsi ad Olimpia. La società moderna (macrocosmo degli ultras per alcuni suoi aspetti) si caratterizza sempre più per la violenza verbale e non; pertanto gli ultras, disarmante e deprivata espressione dei peggiori disvalori, non sono tifosi, ma un affronto alla sportività e al rispetto della vita umana.

Adele Reale

Nell’immagine di copertina, i recenti scontri tra ultras sull’autostrada A1 nei pressi di Arezzo

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