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Mostra riporta in vita la Fontefredda scomparsa

di | 2023-01-07T13:55:23+01:00 8-1-2023 6:30|Cultura, Sezione 7|1 Comment

FIAMIGNANO (Rieti) – “D’estate la via odorava di fieno, il paese era invaso dall’effluvio delle erbe secche. I fienili erano attaccati alle case, le stalle pure. Nei fienili si faceva l’amore, si dormiva, si teneva salotto. Le mucche erano parte della famiglia, l’assieme era parte della comunità. Stalla, casa, fienile erano la fabbrica dove si produceva il necessario alla sopravvivenza. Tutto sta racchiuso in quel cerchio compatto e inespugnabile. Oggi quel sistema di vita non esiste più”. Non è una favola, sono foto e racconti di vita vissuta a Fontefredda, piccola frazione abbandonata dopo gli anni ’60, raccolti da Lorenzo Camilli (ingegnere di Fiamignano), Marcello Mari (architetto di Borgo San Pietro di Petrella Salto), che con l’aiuto di sponsor locali e la collaborazione di concittadini, hanno organizzato la mostra (nella frazione di San Salvatore di Fiamignano, aperta fino al 7 gennaio): “Le memorie di un borgo abbandonato, immagini, racconti e documenti di un borgo montano”.

Il 29 dicembre l’inaugurazione con tantissima gente, segno che l’idea è stata vincente, un breve convegno introduttivo, con la partecipazione anche dello storico Roberto Lorenzetti, che ha cercato faticosamente negli archivi. Pannelli con 19 foto, quadri e un video di circa mezz’ora, in cui gli anziani, chi in sedia a rotelle, chi con stampelle o bastoni, anche ultranovantenni, indicano tra la vegetazione, quel che resta di stalle, cortili, portali, finestre: “qui abitava Tizio, qui abitava Caio”, declinando le parentele, le comari, raccontando episodi della seconda guerra, la presenza dei tedeschi che minavano le strade e i ponti, pretendevano vettovaglie, gli uomini che si nascondevano in montagna per non essere dichiarati disertori dopo l’8 settembre.

Sono tornati nella loro Fontefredda, grazie agli organizzatori che hanno ripulito il sentiero da rovi e vegetazione fitta (oggi è pericoloso andare senza sapere dove si mettono i piedi): “Qui c’era la stalla, di sopra ammassavamo, mangiavamo, di sotto c’erano le cantine dove si entrava da una botola nel pavimento. La botola però è stretta: come fanno ad esserci le botti così grandi? Le costruivano direttamente là sotto?”. No, quei particolari non li conoscono, ma ricordano bene la vita quotidiana, senza acqua corrente, servizi servizi igienici, corrente elettrica. “L’estate ci trasferivamo alle casette in montagna e quando era tempo di mietitura, si falciava a mano, sull’aia si faceva la ‘trita’ di lenticchie, ceci, farro, poi la ‘scamatura’, portavamo il pranzo agli uomini quattro volte al giorno. Era faticoso, oggi sono tutte rose e fiori”, raccontano le donne.

Marcello Mari ha fotografato le case poco dopo il loro abbandono, fermando il tempo in un click (da alcune, Mari ha successivamente tratto quadri): “Tutto era rimasto intatto, come se le persone fossero andate via per tornare poco dopo – racconta –. C’erano bottiglie, attrezzi, barattoli di conserve di pomodoro, legumi, stoviglie, ombrelli, arredamento. Fontefredda aveva parti architettoniche pregevoli, nessuna traccia di modernità, ma logge, archi scolpiti, camini decorati, un’arte semplice, ma elegante, un vero museo di architettura rurale a cielo aperto. Negli anni successivi è iniziato il saccheggio e allora anch’io ho preso qualcosa per tutelarla e metterò tutto a disposizione volentieri qualora si potessero recuperare alcune case, allestire una mostra permanente”. Un sacrario di vite passate.

“Rivolgo lo sguardo al focolare spento. Ha scaldato generazioni, ora nessuno più accende il fuoco, vi butta un po’ di legna secca per sentirla crepitare. Per secoli ha fatto il suo dovere. Negli inverni senza fine di alta montagna ha scaldato tutti, bambini accovacciati attorno a quelle quattro pietre squadrate da chissà quale ignoto scalpellino. I vecchi pisolavano sulle panche che lo circondavano dopo giornate di fatica. Attorno al larin si svolgeva la vita”. L’abbandono di Fontefredda non fu dovuto al terremoto del 1915 (che nel Cicolano fece 1200 morti e oltre 30 mila nella Marsica), bensì al terremoto della deruralizzazione (Fiamignano passò da 4 mila a 1400 abitanti).

“Alla fine dell’800 era un borgo consistente, nel 1930 erano censiti poco più di 220 abitanti e poteva considerarsi un nucleo urbano – spiega Lorenzetti – successivamente le frazioni vennero raggruppate. Negli archivi la storia di Fontefredda è minimale, c’era lo stemma dei Mareri sulla fontana (oggi al Monastero di Borgo San Pietro), storie di briganti. Ce ne sono molti in queste condizioni, che andrebbero recuperati, in tutto l’appennino centrale. Oggi il modello perdente è quello della grande città, c’è un percorso di ritorno e qui può esserci spazio, il Cicolano non è più così isolato, si potrebbe cominciare a recuperare qualcosa”.

“Dopo il 1951 c’erano ancora 44 persone – racconta Lorenzo Camilli, che nel video ha accompagnato e stimolato al racconto gli anziani abitanti (la maggior parte residente ora a S. Agapito), non c’erano spacci, ma solo attività artigianali (chi cardava la lana, chi era calzolaio, la signora Rosa andava per le case a fare il bucato con la cenere), non c’erano costruzioni importanti, non c’era parrocchia, aveva solo una chiesetta dedicata a San Vincenzo, regalo di un signore di Collaralli. Le storie raccolte raccontano il rapporto con la montagna”.

Cosa si trovava in una casa rurale a Fontefredda? Da uno scritto rinvenuto dallo storico Luciano Sarego, nella casa di Francesco Quinzi nel 1818 risultavano essere presenti “un callaro di rame grande e uno piccolo, due conche, due bacili di rame, due coverchi, una cocchiara di maccaroni, uno sgommarello, una padella e una padelletta, una cocchiara di ferro, una paletta di ferro, due spiedi, un zappone, una falcia, una catena a fuoco, un’accetta, due tavolini, quattro sedie, due coperte di lana bianca, quattro lenzuoli, quattro cuscini, una cascia di noce, cinque spallieri, un tornaletto, 5 pigne (pignatte in coccio), due spianatoie, un’arca da far pane, una piletta di mosto cotto, 5 fezze d’accia (matassine di cotone grezzo), due sacconi, una veste e un busto” e pochi altri oggetti essenziali.

Eppure sono sopravvissuti, cresciuto figli, accudito anziani (la civiltà contadina è il primo ammortizzatore sociale, sulle spalle delle donne, come sempre). E poi siamo venuti fuori noi, con le case anche troppo piene.

Francesca Sammarco

One Comment

  1. Giuliana Silvestrini 8 gennaio 2023 at 14:02 - Reply

    Mlto bello io avendo una madre di 95 anni perfettamente lucida gogò deisuoi racconti…

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