ROMA – C’è tanto orrore nelle immagini del film del regista Fariboz Kamkari, dal titolo “Kurdbun-Essere curdo”, che uscirà ad aprile nelle sale. Questa pellicola cruda e violenta è la testimonianza di una guerra silenziosa che da anni opprime i kurdi, popolazione di 40 milioni di abitanti rimasti senza terra da quando il suo stato di 450mila chilometri quadrati nel cuore dell’antica Mesopotamia, fu spartito tra Turchia, Siria, Iran e Iraq. Il Kurdistan, discendente dell’antico regno dei Medi, depositario di una storia millenaria, culla di culture – persiana, greca, ellenistica, romana – che si sono intrecciate tra di loro nel tempo con esiti originalissimi, oggi non esiste più.
Dopo la prima guerra mondiale, con la spartizione del Medioriente, Francia e Inghilterra delinearono a tavolino i confini di 25 stati “innaturali”, che non tenevano conto di etnie, religioni, lingue e culture, famiglie e affetti. Fu così che il Kurdistan fu praticamente cancellato dalle mappe e il suo territorio fu annesso ad altri paesi con uno strascico di ribellioni, sofferenze, repressioni e promesse disattese di un risarcimento per la perdita subita. I kurdi, pur mescolati, divisi, martoriati sono da allora riusciti a non farsi annullare nella loro identità che continuamente rivendicano con coraggio e orgoglio. Molti di loro si sono dispersi in Occidente in una diaspora di cui i media non parlano, colpevolmente, mai. Anche in Europa la loro presenza è numerosa ma nelle cronache si parla di loro solo quando vengono respinti nel tentativo di oltrepassare i confini di qualche stato nel loro eterno cammino.
I kurdi ci sono, sono tanti e tanti ne vengono quotidianamente uccisi in un tentativo di sterminio su cui c’è poca informazione anche se il Medioriente da cui provengono è l’ago della bilancia per la situazione economica e politica internazionale. Nonostante le sofferenze subite, comunque, i kurdi sono riusciti nel tempo a mantenere una propria autodeterminazione e il sogno di tornare ad essere uno stato con propri confini, una lingua e una cultura: in poche parole una patria. E’ per questo che dagli anni ’90 sono nate organizzazioni politiche che si battono per la formazione di uno stato kurdo cui vengono spesso attribuiti attentati terroristici in una continua opera di manipolazione dell’informazione, come quello di Istanbul di qualche giorno fa.
I paesi dove oggi i kurdi sono costretti a vivere non riconoscono nulla della loro identità e della loro storia: in Turchia essi non possono usare la propria lingua né manifestare le proprie origini senza essere puniti o addirittura uccisi. Come in ogni guerra, quello che subisce questa popolazione è un continuo genocidio di cui non sappiamo nulla. Ecco perché il film di Fariboz Kamkari, kurdo nato in Iran che porta nei tratti del volto tutta la lunga storia leggendaria del suo popolo, suonano come una accorata denuncia, un atto di accusa contro l’Occidente che con il suo silenzio è divenuto complice di tanta ingiustizia. Le immagini di sangue e di morte, che potremmo scambiare per quelle di guerre più note come quella in Ucraina, e altrettanto vere e attuali, sono riuscite stavolta ad uscire dai confini dell’Iran, anche se in maniera illegale.
La giornalista Berfin Kar le ha coraggiosamente fatte arrivare al regista, che vive in Europa da 25 anni, affinchè le pubblicasse. Oggi, dopo essere rientrata in Turchia dove è nata e lavora, consapevole di aver commesso un “reato”, la donna è stata arrestata ed è sotto processo per aver violato le regole di una rigidissima censura. Ma ormai è fatta: il film è già stato realizzato ed uscirà a primavera nelle sale cinematografiche. Il mondo saprà. Fariboz Kamkari (anche lui in Iran è sotto processo per aver fatto conoscere queste verità in altri film) lo sta divulgando e ne parla in ogni occasione in cui la gente lo possa ascoltare. Ne ha fatta una missione. “L’opinione pubblica internazionale – spiega – non è informata e non può prendere posizione sul genocidio che sta avvenendo a carico del mio popolo. E’ importante – aggiunge – che si sappia cosa sta accadendo ed io sto cercando di fare il possibile per far circolare queste notizie”.
Il materiale fatto pervenire a Fariboz Kamkari dalla giornalista era tantissimo e lui, abbandonati tutti i progetti in corso (è autore di fiction, commedie e anche di un romanzo di recente pubblicazione), si è dedicato subito al montaggio di quelle immagini facendo suo il disegno della collega turca: denunciare ciò che sta accadendo ma anche il silenzio e la connivenza dei grandi della terra che non intervengono. Mentre la pellicola si snoda, la violenza può risultare traumatica ma l’intento del regista è quello di dare un messaggio forte documentando la realtà che nessuno conosce. A contrasto, le parole della giornalista in sottofondo che raccontano cosa vuol dire “essere curdo”, quale spinta ci possa essere nel continuare ad imporsi per proteggere la propria identità e il sogno di tornare ad essere una nazione nel suo significato più vero: un popolo sul suo territorio. E la sintesi di tutta la narrazione è nella poesia di questo film che ha il suono, le lacrime e la nostalgia di un canto di genti forti e antiche che non si arrendono.
Gloria Zarletti
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