MILANO – Farfalla, dal latino papilio ricollegabile alla radice indoeuropea spar o sfar da cui viene anche il verbo greco πάλλω (vibrare), indica un insetto che vola facendo vibrare le ali, proprio come “volano” facendo “vibrare” i nostri cuori le Farfalle azzurre, giovanissime atlete della ginnastica ritmica. Il trucco marcato rende i loro occhi enormi su quei volti perennemente sorridenti e incorniciati da severi ed inamovibili chignon, i lustrini dei coloratissimi costumi fanno brillare ancor più i diafani ed esili corpi, cosicché tutti restiamo stupefatti ed estasiati dalla sincronia dei movimenti eterei, dalla grazia delle coreografie, dall’agilità e sinuosità delle incorporee linee disegnate nelle loro esibizioni quasi fossero, appunto, “butterflies” (mosche di burro).
Siamo ben consapevoli, nel contempo, della durezza degli allenamenti che sono necessari per l’esecuzione dei loro esercizi e di quanta fatica fisica e psicologica possa esserci dietro ogni medaglia. Grande lo sconcerto suscitato, pertanto, dagli eventi delle ultime settimane e dal “grido di dolore” di alcune atlete: le denunce di Nina Corradini (19 anni), Anna Basta (22 anni), ormai ex ginnaste plurimedagliate della Nazionale delle Farfalle ed il successivo commissariamento dell’Accademia di Desio hanno messo in primo piano una serie di abusi psicologici inflitti, a loro danno, da alcuni componenti dell’entourage azzurro.
Digiuni forzati, pressioni costanti sul peso da mantenere, offese ed umiliazioni di ogni tipo; da ultimo Giulia Galtarossa, ha dichiarato: “Dovevo spogliarmi davanti a tutti, ero chiamata maialina”. Vengono riportati, ancora, episodi di vomito indotto prima del controllo del peso o storie di fughe per un dolcino mangiato furtivamente, ma c’è anche chi come Alessia Maurelli, capitano delle Farfalle, con un palmares di 107 medaglie ha respinto le recenti accuse sottolineando che “non è una disciplina così disumana e subdola. Non lo deve essere. E lo posso affermare con piena consapevolezza, in quanto ginnasta veterana all’interno delle Farfalle, ma soprattutto da donna e sportiva particolarmente attenta a questi temi”.
Le indagini della Procura federale e del Safeguarding Officer accerteranno eventuali responsabilità, ma la questione induce a chiedersi se una medaglia possa valere il benessere di una persona e soprattutto quali costi umani si debbano sostenere per il continuo superamento di limiti sportivi. Andrebbe, quindi, preso in considerazione il rapporto sport /società e la concezione/percezione del corpo o per dirla con un verso di Giovenale, noto a tutti, il binomio «Mens sana in corpore sano»; troppo lungo, forse anche pleonastico, ripercorrere la storia dello sport e soffermarsi sul rapporto corpo/società nei diversi periodi storici, le ali così maldestramente tarpate di tante Farfalle azzurre ci impongono di riflettere soprattutto sull’oggi.
Da una parte esaminando la quotidianità, dove si registra sempre più l’incombenza del desiderio di un corpo in forma: ormai questa aspirazione è divenuta un’insana e maniacale ossessione, una vuota rincorsa dell’effimero. Il cosiddetto “sentire comune” ha finito miseramente col farci ritenere di non aver un corpo, bensì di essere solo corpo con due unici imperativi: “Non ingrassare e non invecchiare!”. Da qui l’effluvio di cosmetici, diete, sport, alla continua ricerca del modello ideale; per cui il fisico, corredato di prodotti di ogni genere, imperversa su tutti i mezzi di comunicazione.
In fondo lo scandalo delle Farfalle ha rimesso in primo piano soprattutto l’innegabile ed ingiusta sofferenza delle atlete, ma anche il vecchio dilemma filosofico tra l’essere e l’apparire, valido ora più che mai per il narcisismo della nostra società, in cui il corpo/oggetto va mostrato, esibito preferibilmente palestrato, abbronzato, snello, tatuato, con piercing, corretto dalla chirurgia plastica con ritocchi vari: in definitiva ridotto ad un semplice involucro vuoto. Dall’altra parte osservando dall’interno il mondo dello sport, dove l’esasperazione dell’agonismo comporta l’abdicazione alla dimensione ludica ed etica a tutto vantaggio della competizione.
L’ansia del risultato e la vittoria a tutti i costi diventano obiettivi unici; quando poi si aggiungono gli interessi economici e mediatici, la spinta competitiva viene esasperata, al punto che perfino il ricorso al doping è da alcuni accettato come necessità ed il corpo viene declassato a puro ed efficiente attrezzo ginnico. Asservire la fisicità degli atleti a risultati sempre più sorprendenti, buttare alle ortiche qualsiasi etica sportiva, fa ritornare alla mente per contrasto l’equilibrio vagheggiato dal mondo classico tra σῶμα (soma, cioè corpo) e πνεῦμα (pneuma, spirito) nonché la semplicità e sacralità dei corredi funebri ritrovati nelle sepolture degli atleti, seppur quasi deificati: un vaso, l’alabastron (ἀλάβαστρον), utilizzato per contenere l’olio con il quale gli atleti si massaggiavano, lo strìgile (στλεγγίς), strumento usato per detergersi e, non sempre, le anfore ricevute in premio per le loro vittorie.
Adele Reale
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