MILANO – Ispirata all’omonimo romanzo autobiografico di Daniele Mencarelli, premio Strega – giovani del 2020, la serie su Netflix “Tutto chiede salvezza” ha riscosso molto successo, pur in presenza di una tematica dura e straziante. La drammaticità e lo stato di sospensione continuo che accompagnano le pagine scritte vengono fatti rivivere e ricreati, nella trasposizione filmica, dall’ottima regia di Francesco Bruni, dalle musiche di Lorenzo Tomio e dalla professionalità e bravura di tutto il cast. Tutti i personaggi richiamano abbastanza fedelmente quelli del libro, il personaggio di Nina (Fotinì Peluso), ha più spazio nella dramedy, con la sua storia di influencer ed il tentato suicidio. “Per i pazzi di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia”, queste le parole con cui si chiude la storia di Daniele (Federico Cesari), dopo una settimana di TSO (trattamento sanitario obbligatorio), a cui è stato sottoposto a causa di un episodio psicotico.
La trama si sviluppa durante i 7 giorni ed analogamente nei 7 capitoli ed episodi della serie, con una tecnica narrativa quasi al rallentatore in un tempo dilatato senza orologi, scandito solo dai pasti, dal sole e dall’insonnia notturna dei ricoverati. Daniele ricorda a fatica l’evento scatenante che ha determinato il ricovero e, durante la degenza forzata, tenta di recuperare il passato e di placare il suo bisogno continuo di evasione, che può definirsi evasione dalla vita: “Che cura può esistere per come è fatta la vita? Se ti metti a parla’ di senso, ti guardano male, ma è sbagliato cerca’ un significato?”.
Sono con lui nella stanza dell’ospedale psichiatrico gli altri matti, anche se per dirla con le parole in romanesco del protagonista “qua ce sta solo un piccolo campionario de follia, la merce vera sta là fuori e ce sta per tutte le stagioni”: il maestro Mario (Andrea Pennacchi), ex maestro elementare, più propriamente maestro di vita, che passa le giornate osservando il nido sull’albero di fronte al suo letto, una sorta di cerchio magico, in attesa di un uccellino immaginario; Gianluca (Vincenzo Crea), bipolare tutto smalti e rossetti in perenne conflitto tra la sua parte bianca sempre euforica, durante la quale pensa solo ‘ar sesso’ e quella violenta e nera quando la mente va unicamente alla morte; Madonni’ (Vincenzo Nemolato) piromane, soprannominato così perché, nei pochi momenti di presenza vigile, urla per invocare la Madonna: “Maria ho perso l’anima! Aiutami Madonnina mia!”; Alessandro (Alessandro Pacioni), in stato catatonico dopo un incidente; Giorgio (Lorenzo Renzi), inquietante gigante buono rimasto bambino dopo il trauma subito per la morte della madre che non ha potuto salutare e che rimanda in qualche modo al nativo americano Capo Bromdem del film-capolavoro “Qualcuno volò sul nido del cuculo”.
Ci sono poi i medici: il dottor Mancino (Filippo Nigro), la psichiatra (Raffaella Lebboroni), il primario e gli infermieri tra cui Pino (Ricky Memphis), talvolta disponibili altre volte distratti ed incuranti della sofferenza dei matti, anche loro con i propri problemi: “Noi medici, voi pazienti: che differenza vuoi che faccia? Ognuno ha la sua storia e dentro ogni storia c’è dolore”. Daniele, attraverso dolorosi flash-back durante i dormiveglia delle sue notti, recupera le tappe intense e travagliate della sua giovane vita caratterizzata da una perenne urgenza di risposte e dalla sregolatezza e violenza delle sue azioni, impastate di alcool e droga che “non placano la smania che mi abita”; lo confortano solo gli affetti familiari, soprattutto la madre (“sei sempre tu che vieni a riprendermi”) e la letteratura. Daniele scrive poesie da sempre, ora in ospedale su un quadernetto che gli ha inviato proprio la madre; e nella convivenza con i suoi compagni di stanza, ritrova quel nucleo umano di solidarietà e comunanza che la malattia gli strappa; gli amici/matti con cui condivide il TSO e la comune sofferenza “sono la cosa più somigliante alla mia vera natura che mi sia mai capitato di incontrare”.
Il maestro Mario, soprattutto, lo aiuta ad avere fiducia; a lui Daniele confessa che la scrittura non è “na noia come me l’avevano sempre insegnato, è l’unico mezzo che può raccontà’ quello che mi esplode dentro”. Mario gli spiega che non esiste nessun farmaco che possa farlo guarire e che deve trovare in se stesso la forza per scacciare tutti i demoni che lo perseguitano. Nell’anonima e spersonalizzante stanza dell’ospedale psichiatrico parlano di Rimbaud e delle sue opere “Je est un autre (io è un altro)” che piaceva agli alunni, come ricorda Mario; citano Baudelaire, si confrontano sulla capacità del poeta, dell’intellettuale di guardare la realtà in modo diverso, un po’ come i matti, e di vedere quello che gli altri, i normali, non vedono. La conclusione a cui giungono insieme è che il loro essere sbagliati non andrebbe curato solo con i farmaci, così “non vogliono curare, ma depurare, purgare, invece dovrebbero saper dividere la follia buona, costruttiva, da quella cattiva”.
Sodalizio che si rompe o meglio si interrompe bruscamente con un ‘botto’ in giardino, “Mario è cascato perché voleva dare da mangiare all’uccellino, si è sporto”. NO, Mario si è suicidato, ponendo fine al suo male di vivere. Ed allora che cosa è quel “Tutto chiede salvezza” se non una spasmodica ricerca di risposte all’angoscia esistenziale che più o meno consapevolmente attanaglia i personaggi? Daniele, durante il TSO, compie una sorta di viaggio interiore le cui tappe sono dapprima rappresentate dagli atti semplici della quotidianità forzatamente condivisa: dividere le sigarette/ ricordare le proprie sconfitte/ scambiarsi il cibo incolore ed insapore della mensa / prestarsi il bagno schiuma/ dormire dandosi la mano durante gli incubi notturni, quando ritornano i fantasmi mai sconfitti, ed alla fine giunge dal “Vi odio, mi odio” del primo giorno di ricovero alla Salvezza dell’ultimo giorno del ricovero forzato.
Daniele ora è finalmente un po’ più riappacificato con se stesso e con il mondo per aver vissuto e riscoperto in quella settimana un forte senso di fratellanza, di solidarietà, di cura dell’altro, quasi consapevolezza della comune condizione umana, per cui gli amici/matti sono “Fratelli trovati nella stessa barca, in mezzo alla medesima tempesta, tra pazzia e qualche altra cosa che un giorno saprò nominare”. Il libro di Daniele Mencarelli racconta la pazzia, vissuta come parte integrante della vita, con una prosa avvincente, drammatica, senza sbavature retoriche e senza concessioni a facili pietismi; la lettura è un continuo pugno nello stomaco che lascia senza fiato, innescando una dolorosa empatia, perché “un uomo che contempla i limiti della propria esistenza non è malato, è semplicemente vivo”.
Adele Reale
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