MILANO – “L’affermazione dei diritti sui luoghi di lavoro, primo quello alla vita, oltre che essere un termometro della vita civile, è un generatore di valore per la società, per i lavoratori, per le imprese”: sono le parole che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha pronunciato il 9 ottobre 2022, in occasione della Giornata Nazionale per le Vittime degli incidenti sul lavoro. Anno terribile, quest’ultimo, in quanto si sono registrati, solo nei primi otto mesi, 677 morti, quasi tre al giorno.
Dal 2015 con la Legge 107, la cosiddetta “Buona Scuola” del governo Renzi, la scuola è divenuta, per così dire, luogo di lavoro con l’obbligo di introdurre nella programmazione didattica degli ultimi tre anni di tutti gli indirizzi di studio esperienze formative svolte anche in strutture produttive. Successivamente nel 2018 con la Legge 145 viene mutato il nome nell’acronimo PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento) e ridotto il monte ore. Gli studenti, recita la norma, impegnati in attività esterne devono essere accolti in ambienti adeguati e sicuri che favoriscano la crescita della persona e siano coerenti con l’indirizzo di studio seguito.
Gli eventi verificatisi nel corso degli anni risultano purtroppo essere di tutt’altra natura, visto il bilancio di morti e feriti registrato. Gennaio 2022, Lorenzo Parelli, 18 anni, al suo ultimo giorno di stage nell’ambito di un percorso di istruzione e formazione professionale, viene travolto in Friuli da una putrella, che gli frana addosso; febbraio 2022 nelle Marche muore appena 16enne Giuseppe Lenoci, il ragazzo era a bordo del furgone della ditta di termoidraulica in cui stava svolgendo lo stage; settembre 2022, Noventa di Piave (Venezia) Giuliano de Seta viene schiacciato da una pesante lastra di ferro scivolata da un cavalletto.
Il ministro della Pubblica Istruzione Bianchi, dopo quest’ultimo doloroso incidente, dichiarò: “Questo è il Paese col più alto indice di morti sul lavoro e non solo per i ragazzi; per questo, in merito all’alternanza scuola/lavoro, stiamo firmando un accordo ulteriore con il Ministero del Lavoro: per tutti devono valere le regole di sicurezza sul lavoro”. Verrebbe da commentare che mentre a Roma si discute, l’alternanza scuola/lavoro continua a lasciarsi dietro una dolorosa scia “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur” (“mentre a Roma si discute, Sagunto è espugnata”).
Ma qual è la ratio che sostiene questa riforma? I giudizi favorevoli sottolineano che finalmente si mette così fine alla divisione tipica della scuola italiana tra licei e formazione tecnica e che l’approccio al mondo del lavoro diviene più concreto. Affermazione condivisibile, ma solo se inserita in un progetto che non esautori la scuola e la renda omologa al luogo del lavoro. Le linee guida, anche dei provvedimenti legislativi antecedenti alla riforma Renzi, hanno messo in evidenza al contrario una modesta progettualità: la riforma Moratti del 2003, Legge n.53 nota anche come la riforma delle “tre I: Inglese, Informatica, Impresa”, ha apportato modifiche sostanziali a costo zero ed in più con ingenti risparmi derivanti dai tagli lineari. Identico spirito per la riforma Gelmini (2009-2010), a cui va anche “il merito” della costituzione delle cosiddette classi-pollaio, formate da un minimo di 15 alunni fino ad un massimo di 26/27 o in casi estremi 32.
In quegli stessi anni il ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta definiva gli insegnanti dei “fannulloni”, epiteto che faceva il paio con le dichiarazioni del ministro Maria Stella Gelmini, secondo la quale i docenti delle scuole del Sud abbassavano la qualità della media nazionale. Forse più che di riforme sarebbe opportuno parlare di cambiamenti di facciata tanto eclatanti nei toni e nei termini, quanto modesti e falsamente innovativi nei contenuti. Al contrario la scuola deve essere considerata un luogo di formazione, in cui il “saper fare” non può che essere una consequenziale applicazione delle conoscenze.
Essa come luogo essenzialmente di cultura e magari anche di ricerca, di crescita della persona, di acquisizione di conoscenze, si prefigge il raggiungimento delle competenze; pertanto non si può considerare la mera esperienza e la semplice osservazione come esaustive per la formazione, altrimenti si finisce col privilegiare un saper fare generico, solo in grado di adattarsi ai vari contesti. Sottoporre la scuola alle esigenze del mercato equivale a spogliarla delle sue prerogative, ne è prova il proliferare abnorme, negli anni passati, delle specializzazioni ed indirizzi di studio in relazione alle esigenze dell’industria.
Tutto ciò ha finito col rovesciare il criterio che costituisce la base di ogni percorso educativo: si legge, si studia, si ricerca per sviluppare ed affinare in autonomia capacità critiche ed acquisire nuove conoscenze per poi inserirsi nel mondo produttivo con competenza e non, al contrario, esservi immessi quasi privi di conoscenze, alla ricerca di nuove abilità, anzi per dirla nel nuovo burocratese, di nuove skills. Si resta, pertanto, a dir poco perplessi di fronte alle scelte della politica che, al di là dei diversi schieramenti, per la scuola continua a farsi promotrice di riforme con un unico denominatore “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.
Adele Reale
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