Verità e giustizia sono facce della stessa medaglia? Insomma, coincidono sempre, soprattutto nelle aule dei tribunali (ma non solo)? La risposta è lapidaria, quasi scontata: no. La verità giudiziaria talvolta, anzi piuttosto spesso, non aderisce ai fatti per come sono realmente accaduti. E’ un limite insormontabile che tutti gli operatori del settore conoscono bene: l’obiettivo minimo è cercare diarrivare il più possibile vicino alla verità e di agire di conseguenza. Con la condanna o con l’assoluzione. “Al di là di ogni ragionevole dubbio”, come recita una formula giuridica universalmente nota.
Proprio il tema di far giustizia e di arrivare alla verità, attraverso l’accertamento dei fatti, è il filo conduttore di un avvicente romanzo di Graham Moore “Il verdetto” (Neri Pozza, 2022, traduzione di Irena Trevisan Vicenza). La quindicenne Jessica Silver, ereditiera di un patrimonio di miliardi di dollari, di ritorno da scuola svanisce nel nulla. Bobby Nock, afro-americano e suo giovane insegnante, è il primo e unico sospettato. La pubblica accusa lo mette in carcere per omicidio di primo grado (quindi, con l’aggravante della premeditazione). A sostegno delle pesantissime accuse una serie di prove (o presunte tali): un intenso scambio di sms molto scabrosi tra i due, tracce di sangue di Jessica trovate nell’auto del professore, persino nel bagagliaio. Secondo la ricostruzione del procuratore, Bobby aveva una relazione con la ragazzina che lo avrebbe minacciato di rivelare tutto ai suoi genitori, in particolare al suo potentissimo papà, tanto da indurlo ad ucciderla e a far sparire il corpo, presumibilmente nel deserto.
Tutta l’America segue la vicenda; i media si mobilitano per assicurare al processo massima visibilità e audience altissima. La sentenza sembra già scritta, la condanna garantita: i 12 membri della giuria, letteralmente “sequestrati” per cinque mesi in un albergo prima per seguire le udienze e poi per pronunciare il verdetto, non vedono l’ora di tornarsene dalle loro famiglie e alle loro attività. Per l’avvocatessa Gibson, difensore dell’imputato, il compito sembra impossibile. E invece, lentamente ma con metodo, comincia ad instillare dubbi nella mente dei giurati: non contesta le “prove”, ma di ognuna dà una diversa interpretazione. In primo luogo, chiede e ottiene dal giudice che a proposito di Jessica non si parli più come vittima di un rapimento e di un omicidio, ma di persona scomparsa: il corpo non è stato mai ritrovato, quindi… Bobby segue impassibile il processo, non si siederà mai sul banco dei testimoni: la strategia difensiva non lo prevede, ma questo suo comportamento viene interpretato dalla stragrande maggioranza come ulteriore indice di colpevolezza.
Dopo la requisitoria in cui il procuratore ricapitola tutte le “prove” lungamente illustrate in aula e l’arringa del difensore che si limita a contestarle dando di ognuna una lettura differente (“Ammesso che tra Bobby e Jessica ci fosse una relazione intima, sicuramente inapproppriata e sconveniente, questo può automaticamente portare a pensare al rapimento e all’omicidio, come sostiene la pubblica accusa?”), i giurati si ritirano per la decisione finale. Tutti i network televisivi sono pronti per la diretta perché il verdetto sembra rapido. E scontato. E invece sui 12 fogliettini in cui ognuno deve esprimere la propria opinione, per 11 volte si legge “Colpevole”: una sola giurata, Maya Seale, scrive “Non colpevole” perché è fermamente convinta dell’innocenza di Nock. La sorpresa è enorme e scatena discussioni che si trascinano per settimane. Nel sistema americano, la decisione (qualunque essa sia) della giuria deve essere presa all’unanimità. La Seale, con un sottile lavoro psicologico, riesce a portare dalla sua parte il resto della giuria. L’ultimo ad arrendersi ad un verdetto di “non colpevolezza” è Rick (anche lui afro-americano) con il quale proprio Maya ha allacciato una relazione (peraltro vietatissima dalla legge) durante i mesi del processo.
Il verdetto di assoluzione scatena l’indignazione dell’opinione pubblica. I giurati, uno a uno, vengono messi in croce dai mass media. Dieci anni più tardi, una docuserie di Netflix riporta quelle stesse dodici persone nell’albergo del verdetto, e al centro della scena c’è ancora lei, Maya Seale, diventata nel frattempo avvocato penalista. C’è chi sostiene (Rick) di avere nuove prove per riaprire quel caso. C’è chi vuole impedire (la maggioranza) che venga riaperto perché ognuno ha qualcosa da nascondere o da non voler rivelare di quei mesi che comunque hanno cambiato in peggio la vita di tutti. In un continuo flashback tra il presente e il periodo del processo, Moore scava e tocca tutti i nervi scoperti dell’America: dalle questioni razziali alle differenze di classe, dai comportamenti sessuali ai pregiudizi del sistema giudiziario. Il primo e grande imputato è proprio l’America, grande democrazia dalle molteplici contraddizioni.
I colpi di scena sono continui: Rick viene ucciso nella camera di Maya, ma lei non c’era anche se non può dimostrarlo, tanto che il suo difensore (che poi è il titolare dello studio legale nel quale lavora) le suggerisce come strategia processuale di sostenere la tesi dell’aggressione subita e della legittima difesa. La Seale non si arrende nemmeno di fronte al suicidio di Bobby Nock e continua senza sosta la sua caccia alla verità. In questa sede non si può anticipare il finale, ma ciò che viene fuori in modo prorompente è la sostanziale inadeguatezza dell’uomo e, di conseguenza, dell’intero sistema giudiziario di fronte all’accertamento dei fatti per come sono realmente avvenuti. Perché un verdetto, di colpevolezza o di innocenza, non è quasi mai specchio fedele di quanto è avvenuto davvero. Perché la linea di confine tra verità e giustizia è sottile e labile. Al di là di ogni ragionevole dubbio.
Buona domenica.
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