PERUGIA – Diciotto mesi appena, aveva Diana. Un anno e mezzo. Ed è stata fatta morire di inedia. Di fame e di disidratazione. Lasciata, per sei-sette giorni di fila, da sola in casa, su una brandina da campeggio, in un appartamento di via Parea, a Milano, neanche fosse una bambolina di pezza. Sembra impossibile che questa riprovevole, anzi atroce ed esecrabile vicenda si sia consumata in una grande città, nella capitale economica del nostro paese. Accanto al cadaverino i carabinieri hanno trovato due biberon, quattro bottigliette d’acqua, due di thè deteinato. Secondo chi aveva posizionate i contenitori sul comodino, dovevano servire alla sopravvivenza della piccina, che aveva da poco mosso i primi passi e pronunciato le prime, semplici parole e dunque non era, e non poteva essere considerata, autosufficiente.
Il tutto perché la snaturata genitrice – qualcuno di voi riuscirebbe ad utilizzare, per un caso come questo, il termine di madre? – intendeva “distrarsi”, qualche tempo, col suo compagno a Leffe, nel bergamasco, la località in cui Diana era nata ed in cui era in corso la festa del paese. Questa la notizia, nuda e cruda, che ha causato sgomento ed orrore non solo in Italia, dove le mamme sono in genere fin troppo chiocce, ma in tutto il mondo. “É una donna capace di tutto, che va immediatamente fermata. Priva di scrupoli e capace di commettere qualunque atrocità pur di assecondare i propri bisogni personali, legati alla necessità di intrattenere, a qualunque costo, relazioni sentimentali e amorose con gli uomini”, ha scritto il pubblico ministero nella richiesta di convalida del fermo in cui contesta all’indagata l’omicidio volontario pluriaggravato. Nell’abitazione in cui la piccina è stata incredibilmente abbandonata sono stati sequestrati anche dei sedativi. Non è escluso che alla bimba sia stato fatto ingurgitare pure del tranquillante, visto che è stato rinvenuto un flaconcino, quasi vuoto, contenente benzodiazepine. Aspetto che spiegherebbe anche il fatto che i vicini non hanno avvertito, nei lunghi giorni dell’abbandono, singhiozzi o pianti provenire dall’appartamento.
Diana ha avuto la sfortuna di venire alla luce da un utero terribilmente sbagliato. In un altro ambiente, magari povero, anche disagiato, sarebbe stata accudita con attenzione, con affetto, con amore. Non è stato così, purtroppo. Diana è stata considerata come un ostacolo ai desideri, alle aspettative, ai sogni di chi l’aveva partorita. Eppure la puerpera non era neanche una ragazza di primo pelo, senza esperienza, spaventata dalla gravidanza non voluta. Trentasei anni, sposata, separata, con un nuovo compagno, Alessia Pifferi – l’indagata – avrebbe dovuto essere in grado di capire il disvalore di quanto stava facendo. La Pifferi, negli interrogatori davanti al pubblico ministero, d’altronde, l’ha ammesso. “Quando ho lasciato mia figlia da sola in casa, non ero tranquilla – ha verbalizzato – sapevo che stavo facendo una cosa che non andava fatta, poteva succedere qualsiasi cosa, sia in riferimento al cibo che ad altro. Sarebbe potuta cadere dal lettino, sarebbe potuto subentrare qualche malessere. Ho pensato che sarebbe potuto succedere anche quello che poi è successo”. E non era la prima volta: pare che in altre circostanze, almeno da metà giugno, la donna avesse approfittato dei week end per ritagliarsi ore di vacanza e lasciando da sola la bimba.
Ha agito in piena lucidità, la donna. Aspetto che rende l’accusa ancora piú grave. Ha accettato il rischio, pur di guadagnarsi la propria indipendenza, l’agognata autonomia, pur di godere di “un po’ di distrazione”, come ha dichiarato a verbale. In aula, al processo, si affronterà il tema giuridico del “dolo eventuale”, che si concretizza quando qualcuno non tenta di raggiungere l’evento criminoso, ma capisce, sa bene, ritiene seriamente probabile, che l’evento possa verificarsi. E, con le sue stesse affermazioni, l’indagata ha già delimitato il campo del dibattimento in ambito processuale. Non è qui il caso di disquisire sulla capacità di intendere e di volere della protagonista di questo agghiacciante caso giudiziario. Se qualcuno solleverà la questione – succede spesso che, davanti ad un avvenimento abnorme, singolare, incomprensibile nella sua crudeltà, si imbocchi la strada, fin troppo facile, della malattia mentale – si affronterà il discorso a tempo debito.
Nella morte di Diana la bilancia sembra pendere di più nel territorio dell’egoismo sfrenato, della ricerca della soddisfazione piena, totale, dei propri interessi, dei propri impulsi a scapito dell’altro. Anche del proprio figlio o figlia, che sia. La società contemporanea sembra aver imboccato, con nonchalance, questa strada. Anche in episodi banali, come soddisfare all’aperto le esigenze del corpo o consumare in pubblico i propri appetiti sessuali (fatti avvenuti, al nord, al centro al sud, non profacole). Gli altri – affermava un noto pensatore del Novecento – “sono l’inferno”. Ergo vanno, come minimo, ignorati. Ciascuno – in questo quadro – si sente in diritto di fare ciò che vuole, senza regole e senza limiti. Se il prossimo soffre di queste scelte, affari suoi. Ma se questa linea di pensiero, questo modo di comportarsi, di agire, non viene respinto, rigettato, superato con profonda e vissuta convinzione, quanto potrà durare la convivenza civile? Quanto potrà andare avanti la comunità umana? Il tempo dell’uomo lupo agli altri uomini bussa, da tempo immemore, alle porte.
É la molla che ha spinto Caino ad uccidere Abele. Nonostante la definizione dell’uomo come individuo sociale, molti guardano solamente al proprio ed esclusivo interesse. Ed è la stessa maniera di ragionare che ha determinato uno Stato ad invadere il vicino. Questo disprezzo dell’altro si configura, non da oggi, sia nei rapporti tra le persone, sia tra le nazioni: la storia – antica, moderna, persino recentissima – ne è piena. Anche troppo. Di questa mancata sensibilità, di questo non dico amore, ma almeno rispetto del prossimo, il corpicino di Diana è testimone muto, ma eloquente ed ineludibile. Non dimentichiamola, questa sfortunata piccina. “Sparge, precor, flores” (Spargi fiori, ti prego). Anche se Diana, forse, avrebbe il diritto di gridare la frase incisa, incompleta ma chiara, sull’iscrizione funeraria di duemila anni fa del piccino, anche lui, Giunio Faustus, di due anni che imprecava: “Matri mee impiae sceleratae Di Superi et Inferi referat gratiam quod me” (“Alla madre mia empia e scellerata gli dei Superi ed Inferi facciano scontare il fio per avermi…”).
Elio Clero Bertoldi
Lascia un commento