PALERMO – Per chi non ha eccessiva simpatia verso animali e vegetali ed è distante da una sensibilità di matrice buddista, il testo di Chandra Candiani Questo immenso non sapere, (Einaudi, Torino, 2021) può risultare dolciastro, inconsistente o addirittura indigesto. A chi scrive invece – forse perché sostenitrice appassionata dell’eco-appartenenza e in cerca di spunti esistenziali autentici, anche se minuti e provvisori – ha fatto bene leggere questo libretto. Che, come si legge nella quarta di copertina “è un libro disordinato (…) che non vuole essere imbrigliato in un piano: come un animale o come un albero della foresta, non addomesticati, inutili, nel senso che non si curano di avere uno scopo, sono in vita e gli basta”.
Eppure un filo rosso, formato da sassolini sparsi che indicano un percorso, nelle pagine della Candiani, è possibile trovarlo. Il testo, intanto, fa sentire l’intima e profonda vicinanza dell’autrice verso le creature animali e vegetali: “Gli animali sono educatori del cuore. Gli alberi del suo silenzio”. “Gli animali e gli alberi insegnano a non sapere, a tollerare di stare al mondo senza l’ossessione di capire. La loro assenza di controllo mi pare renda il mondo non più minuscolo, ma anzi vastissimo, misterioso. Sanno abbandonarsi, conoscono e insegnano una fiducia primaria e radicale”. E ancora: “Alberi e animali mi hanno protetto l’infanzia (…) mi hanno dato un’altra possibilità, un prezzo diverso al tempo, non di sola perdita, quasi una tradizione immutabile, una continuità dove si vive all’insaputa di sé”.
L’autrice fa poi dell’insondabilità del mistero della vita un manifesto programmatico: “Ho sempre avuto la sensazione scomoda e stupefacente di non sapere niente. A scuola mi sembrava che, anche studiando qualcosa, le lacune aumentassero a dismisura, fino a farmi smettere anche solo di provare a colmarle. (…) Imparando a meditare, sono entrata in familiarità lentamente, lentamente, con il non sapere. Mi accorgevo che meno sapevo più sperimentavo. E più tardi, cercando di passare agli altri la pratica della meditazione, mi sono accorta di come chi sa o crede di sapere molto sperimenta solo esperienze di seconda o di centesima mano, non è mai in intimità con niente, non trema davanti al non conosciuto e non si inoltra. (…). Una buona pratica, preliminare a qualunque altra, è esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi. (…) La pratica della meraviglia è una pratica che cura anche il cuore più ferito della terra (…) che ha potuto esercitare solo la paura.”
Ad avviso di chi scrive, pratica della meraviglia e cura del cuore ferito costituiscono la trama e l’ordito del testo della Candiani: “Sapere cosa sia e cosa senta il cuore è una faccenda di cicatrici, segui la cartina muta delle ferite e trovi il luogo spoglio che chiamiamo cuore”. “Qui si stendono mappe celesti del tipo: la prossima volta che vai in pezzi, non cercare di restare insieme, spolverati sul paesaggio interiore finché scopri un puntino intatto. Credo proprio che si chiami cuore o luogo fondamentale o nucleo inviolabile o orto della tenerezza”. E ancora: “Andare verso il cuore significa non imparare niente di nuovo, ma ricordare quello che sappiamo da sempre e che è stato coperto, oscurato”. “Forse la perdita più grande nella vita di una persona è la perdita della magia. La fedeltà all’infanzia è il rifiuto e la lotta per non perdere l’incantesimo”.
Il non sapere della Candiani è certamente assai diverso da quello socratico; somiglia piuttosto all’Esprit de Finesse o Spirito di Finezza, elogiato da Blaise Pascal, secondo il quale per intuire i fondamenti dell’esistenza umana è poco utile l’Esprit de géométrie, lo spirito di geometria, cioè la conoscenza razionale, analitica: solo l’Esprit de Finesse ci permette di raggiungere il “cuore” di noi stessi, degli altri e delle cose. L’autrice, vicina alla spiritualità buddista, indica poi alcuni sentieri possibili per risanare il cuore ferito e la società malata: “Esistono nel buddismo pratiche che aiutano la scoperta dei territori del cuore, insegnano a entrarci, percorrerli, spazzarli e abitarli, e a sentire la mancanza quando siamo altrove. E a non confonderli con le nostre idee sentimentali e con le instabili emozioni. Si chiamano Brahma-vihãra, che significa ‘dimore divine’, dette anche ‘gli incommensurabili’. Esistono luoghi come l’universo, che non si possono misurare: il cuore è uno di questi luoghi. Le dimore divine sono quattro: mettã, la gentilezza amorevole; karunã, la compassione, muditã; la gioia per la gioia dell’altro; upekkhã, l’equanimità”.
Ci si congeda da questo libretto ‘disordinato’ rinfrancati, più tolleranti, più umili. Certo, ancora dubbiosi su tutto. Di un dubbio però che non affanna, ma è utile antidoto a ogni fanatismo, alla tentazione di sentirsi sapienti, migliori degli altri. E, chissà, come la Candiani, anche i lettori e le lettrici potrebbero tentare di divenire persone più serene, vogliose di “tenere tutti dentro: alberi, animali, rocce, fiumi, astri ed esseri umani”. Desiderose, infine, di “aver cura di sé, e quindi degli altri. Vedere il mistero che ci circonda ovunque. Sapersi inchinare e chiedere rifugio. (…) Poter reggere l’insoddisfazione e interrogarla e vederla trasformarsi in campo aperto. Studiare il proprio carattere e poterne ridere quando va allo scontro con il carattere dell’altro, poterlo lasciar cadere come un costume di scena. Amare e lasciarsi amare. Vivere, respirare, meditare per addestrarsi a essere nulla”.
Maria D’Asaro
Lascia un commento