/, Sezione 2/Patrizia Cavalli, poeta esplosiva e mai banale

Patrizia Cavalli, poeta esplosiva e mai banale

di | 2022-07-03T12:02:23+02:00 3-7-2022 6:05|Personaggi, Sezione 2|0 Commenti

PERUGIA – La camera ardente l’ha organizzata il Comune di Roma in Campidoglio. Un riconoscimento riservato alle personalità di spicco. Patrizia Cavalli, 77 anni, stroncata dopo una lunga e crudele malattia, ha ottenuto questo onore perché grande “poeta”. Al maschile, sì, perché così voleva e si definiva lei stessa, che rifiutava il termine di “poetessa” (“Mi suona – spiegava – come una presa in giro”). Patrizia era nata (il 17 di aprile 1945, non nel 1947 come riportato da diverse testate nazionali) ed era cresciuta a Todi, prima in corso Cavour, in un palazzotto dirimpetto alla fontana della Rua, poi in via Cesia o della Piana, accanto alla chiesetta di Sant’Ilario, nello storico palazzo dei conti Pongelli. E aveva frequentato il Liceo Ginnasio “Jacopone da Todi”, a San Fortunato, nella parte più alta della città.

Chi l’ha conosciuta di persona, in gioventù, la ricorda come una ragazza sagace ed acuta, pronta alle battute fulminanti, permalosa, però. Introversa in alcuni momenti, aperta in altri. Come il tempo sui monti mutava all’improvviso: da azzurro e sereno a nuvoloso e minaccioso in un batter di ciglia. Forse nessuno dei suoi amici liceali avrebbe immaginato che, dietro quegli occhi chiari, dietro le spesse lenti, si celasse un poeta in formazione. Ma probabilmente nessun compagno di scuola e neanche di banco, in nessuna epoca, sarebbe in grado di pronosticare i futuri allori di alcun intellettuale o artista, bazzicato in età scolare. Eppure la vena lirica già esisteva. Sotterranea, carsica, non divulgata neppure agli amici più intimi, più cari, ma gorgogliava. Confessò lei, ormai famosa, di aver vergato la prima poesia a sei anni. L’oggetto? “Mi ero innamorata di Kim Novak, vista al cinema”, confidò. E l’ispirazione, per quel sentimento impossibile da concretizzarsi, aveva messo le ali.

Non è escluso, anzi appare scontato, che già al ginnasio ed al liceo, Patty scrivesse rime tenendole riservate nel diario o nei quaderni, custoditi nel cassetto, chiuso a chiave, magari, della scrivania del suo studiolo. Chissà che non avesse raccolto lì i pensieri sul suo unico amore (e platonico), per un ragazzo – ne accennò l’esistenza “en passant”, in una intervista – appena più grande, un suo vicino di casa… Amava e coltivava la musica. Di sicuro aveva preso lezioni di pianoforte, prima in Ancona (dove il padre ingegnere si era trasferito per un breve periodo), poi dalla signora Vera Valli in Retti, musicista, che la considerava un talento in erba, sebbene non sempre la promettente allieva si applicasse con continuità nello studio. Ha scritto la Cavalli: Bene, vediamo un po’ come fiorisci / come ti apri, di che colore hai i petali / quanti pistilli hai, che trucchi usi / per spargere il tuo polline e ripeterti / se hai fioritura languida o violenta / che portamento prendi, come inclini / se nel morire infradici o insecchisci, / avanti, su, io guardo, tu fiorisci.

Patrizia era sbocciata in maniera lenta, ma prorompente, esplosiva. Ancora studentessa girava con ampie giacche di taglio maschile sopra la gonna e fulminava con i suoi sguardi chiari gli importuni, i seccatori. Ironica e talvolta sarcastica. Insofferente. Spesso ribelle. Sempre anticonformista. Tra le prime liceali tuderti a fumare in pubblico. Piacere – o vizio – mai abbandonato. Trasferitasi a Roma, poco più che ventenne, per iscriversi alla facoltà di Filosofia, nel volgere di pochi anni aveva pubblicato il suo primo libro di liriche: “Le mie poesie non cambieranno il mondo” (1974), per i tipi di Einaudi, il suo editore quasi esclusivo, sotto l’egida di Elsa Morante, che l’aveva accolta e protetta. Era stata proprio la scrittrice, suo vero mentore, ad introdurre Patrizia nel “milieu” degli intellettuali romani (tra gli altri le aveva fatto conoscere e frequentare anche un altro grande poeta: Sandro Penna, perugino).

Ammise Patrizia, davanti alle telecamere, come l’incontro con la Morante nel 1968 – anno, stagione non banale – le avesse mutato, radicalmente, l’esistenza. “Lì è cominciata – queste le sue parole – la mia vita. Da quel momento è cambiato tutto: da così a così”. Ed ancora in modo più esplicito: “Lei mi ha tirato fuori dalla mia infelicità e mi ha fatto essere poeta”. Ad una domanda della stessa scrittrice, ai tempi delle prime frequentazioni, su cosa facesse in concreto, Patty – che seguiva i corsi di filosofia – rispose, d’impeto: “Scrivo poesie”. E fu costretta, da quel momento a comporne (“Mi ero resa conto che quelle che avevo redatto prima non valevano nulla”), nel volgere di alcuni mesi, diverse, con uno stato d’animo lacerato ed oscillante tra la gioia di trovarsi al centro dell’attenzione dell’amica ed il timore che i suoi versi non incontrassero il consenso di quel mito, di Elsa, insomma, il parere della quale valeva per lei più del giudizio di Paride.

Quando la Morante, letti i componimenti, li approvò, dichiarando l’amica “poeta”, Patrizia si sentì in paradiso: appagata, felice. Fu così che pubblicò “Le mie poesie non cambieranno il mondo”. La raccolta “Il cielo” venne pubblicata nel 1981 ed un’altra edizione fu data alle stampe con l’aggiunta delle prime due opere con in più “L’io singolare”, una decina di anni più tardi. L’ultima pubblicazione in versi, “Vita meravigliosa”, è uscita nel 2020. Con un notevole apprezzamento, come in precedenza, non solo in termini di copie vendute. Nella poetica di Patrizia Cavalli l’amore muove tutto. Resta il motore primo, anche se non in termini danteschi. Precisò: “Non esiste l’amore, esiste chi ami”: Non sono nata per essere ragionevole. / Sono nata per amare / per essere felice, per odiare / per immaginare, per inventare / per capire e anche – di tanto in tanto – / per essere ragionevole / ma non devo essere ragionevole. / Essere ragionevole / vuol dire adattare i propri pensieri / a quel che gli é contrario, / modificare e distorcere la propria intelligenza / per assecondare i desideri altrui.

La Cavalli, comunque, si è dedicata pure alla prosa e si è cimentata, con risultati di eccellenza, in traduzioni per il teatro di opere di Moliére, di Shakespeare, di Orwell. Ha lavorato, per due radiodrammi, persino per la Rai. Una letterata, insomma, a tutto tondo. Che sapeva muoversi pure sulla scena: come dimostrano i recital all’Auditorium di Roma – e non solo – financo esibendosi con tanto di accompagnamento musicale, come nelle “performance” con Diana Tejera. Sorprende il particolare che, per un periodo della sua vita, avesse frequentato, da accanito giocatore, i tavoli verdi. Il poker, in particolare. A spingerla, forse, il sottile piacere del rischio nell’arraffare ricchi piatti, ma anche lasciando, più spesso, dolorose… penne (leggi: cifre molto, molto pesanti). Tanto che, un bel giorno, per non rovinarsi del tutto sul piano economico aveva deciso di smettere. In tronco.

Declamava: Cosa non devo fare / per togliermi di torno / la mia nemica mente: / ostilità perenne / alla felice colpa di essere quel che sono / il mio felice niente”. Sosteneva, Patrizia che la poesia rappresenta “una esperienza di interezza e nello scriverla, lunga o breve che sia, si é al riparo dalla lontananza e della perdita. Il suo essere é la sua verità. È quel che è assolutamente presente e guarisce dall’immaginazione. Un po’ come essere tra le braccia di un’amante. La presenza e l’assenza, il piacere dei corpi ed il dolore del distacco, la libertà e la prigione dei rapporti affettivi. Il conflitto degli opposti. Il dritto ed il rovescio di ogni cosa, di ogni medaglia. Cantava: Adesso che il tempo sembra tutto mio / e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena, / adesso che posso rimanere a guardare / come si scioglie una nuvola e come si scolora, / come cammina un gatto per il tetto / nel lusso immenso di una esplorazione, adesso / che ogni giorno mi aspetta / la sconfinata lunghezza di una notte / dove non c’è richiamo e non c’è più ragione / di spogliarsi in fretta per riposare dentro / l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta, / adesso che il mattino non ha mai principio / e silenzioso mi lascia ai miei progetti / a tutte le cadenze della voce, / adesso vorrei improvvisamente la prigione.

Si è spenta, Patrizia, in un giorno speciale, non anonimo, non ordinario: il solstizio d’estate. In una poesia si era interrogata: E me ne devo andare via così? / Non che mi aspetti il disegno compiuto/ ciò che si vede alla fine del ricamo/ quando si rompe con i denti il filo/ dopo averlo su se stesso ricucito/ perché non possa più sfilarsi se tirato./ Ma quel che ho visto si è tutto cancellato./ E quasi non avevo cominciato. La sua speranza, il suo desiderio ultimo, li aveva resi pubblici in questi termini: La morte vorrei affrontarla ad armi pari / anche se so che infine dovrò perdere, / voglio uno scontro essendo tutta intera, / che non mi prenda di nascosto o lentamente.” Sapeva bene, tuttavia, che le sue aspettative suonavano solo come un auspicio. Aveva rimarcato, infatti, in altre rime, lucidamente: “Muoio. / Lo fanno tutti, / dovrò farlo anch’io. / Sì, mi conformo / alla regola banale.

Elio Clero Bertoldi

Lascia un commento

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi