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Una splendida Turandot dedicata all’Ucraina

di | 2022-03-24T18:57:30+01:00 27-3-2022 6:40|Sezione9, Spettacolo|0 Commenti

ROMA – Pare sia stato un caso, ma davvero imprevedibile. La “Turandot” di Giacomo Puccini, tuttora in corso fino al 30 marzo al Teatro dell’Opera di Roma, prevede la presenza di tre artisti ucraini, mai come ora di attualità. E l’opera pucciniana, nata da una fiaba di Carlo Gozzi, ne è saturata, essendo tremenda la realtà del momento, in quella loro terra. Tuttavia ricordiamo che la direttrice d’orchestra di questa “Turandot”, l’ucraina Oksana Lyniv è in Italia, impegnata al Comunale di Bologna già da gennaio scorso e che un anno fa i romani la conobbero sempre al Costanzi, in maggio, in un concerto su Wagner e Chajkovskij.

Oksana Lyniv e Ai Weiwei alla T

Ma dal quel maggio le cose sono precipitate, l’Ucraina è in fiamme, e la giovane e combattiva direttrice ha imbracciato il suo fucile: la musica, che parla tutte le lingue, anche quella di chi non vuole ascoltare. “Verseremo fino all’ultima goccia di sangue”, ha detto, dedicando questa “Turandot” alla sua Ucraina, ed invocando l’aiuto dell’Europa, insieme con il soprano anch’esso ucraino Oksana Dyka, odierna interprete all’Opera della principessa Turandot. Basilare nell’elaborazione dell’allestimento di questa estrema opera del compositore lucchese, è stato il regista teatrale, scultore, designer, dissidente politico cinese Ai Weiwei, che ha lottato (e pagato con mesi di carcere) la sua avversione contro la dittatura. Egli ha ideato scene, costumi (bellissimi, fiabeschi) e condotto la regìa scenica e video di questa “Turandot”.

Il soprano Adriana Ferfecka

La magìa di Puccini vi è presente e totale: nella reggia dell’Imperatore Altoum (interpretato da Marco Spotti), la potenza visiva delle vòlte sceniche è pari alla potenza musicale del gesto direttivo della Lyniv, che vi grandeggia pur nell’esilità del suo giovane fisico. I video del fondale registrano al contempo genti in fuga tumultuosa, frammentarie immagini di violenti arresti polizieschi, di donne trascinanti bambini nella via, in un’apocalisse purtroppo reale.

E questo cataclisma in scena si contrappone ai profili di città del benessere, Venezia, Parigi, Roma, alle parodie dei ministri-bamboccio dell’Imperatore, Ping, Pang e Pong. In queste scene, tutto ha le linee sinuose e fiorite dei boschi, della natura, soprattutto dei fantastici mostri dell’arte cinese cari a Weiwei, mentre scorrono comunque rapidissimi sui video gli incendi dei grattacieli, i crolli delle case, le desolate macerie tra i depositi ordinati e inesauribili delle bombe.

Le sete fatate e i veli di Turandot non celano l’incubo degli enigmi, ma l’apparente angoscia di Calaf (tenore Angelo Villari) viene subito dissipata dall’immenso sentimento amoroso del giovane principe. E il suo potente “Nessun dorma, nessun dorma…” diventa improvvisamente simbolo statuario della sicurezza, della forza, dell’invincibilità della lotta ucraina contro la sopraffazione, mentre nei video formicola immensa la folla innocente. Poi la favola riprende. La piccola Liù (bravissima la dolce polacca Adriana Ferfecka), accanto al vecchio re Timur (basso argentino Rodrigo Ortiz) si uccide per non rivelare sotto tortura il nome di Calaf. E qui, alla commovente morte di Liù, si fermò la mano di Puccini, morto nel 1924.

Ai Weiwei

E qui si ferma anche lo spettacolo, avendo tutto lo staff rinunciato al finale – scritto nel 1926 da Franco Alfano, pur scelto da Toscanini – in un estremo atto di rispetto per il geniale Puccini. Perché, dice Ai Weiwei, ciò che è rimasto inespresso nella mente del compositore, rientra nella “imperfezione”, e Roma, città delle rovine archeologiche, è la quintessenza della tristezza della “imperfezione”.

Va aggiunto che il regista – e operatore visuale – Ai Weiwei ha creato, e donato al Museo Nazionale Romano, un’installazione di 6 metri per 9 con circa 2.000 pezzi di vetro soffiato dello studio Berengo a Murano, rappresentanti un gigantesco corpo umano scarnificato e totalmente scomposto: “La commedia umana”, dal fortissimo valore simbolico, esposto nel Museo fino al 3 aprile.

Paola Pariset

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