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8 marzo, ma gli uomini che cosa ne pensano?

di | 2021-03-07T10:49:17+01:00 7-3-2021 6:10|Attualità, Sezione 3|0 Commenti

ROMA – Forse perché è stata presa un po’ sottogamba, travisata, interpretata male dalle sue stesse protagoniste, fatto sta che la festa della donna nel tempo ha perso il significato originario che la voleva come un momento di riflessione sui problemi che riguardano il sesso femminile. Ed è diventata qualcosa d’altro: una cena tra amiche, in discoteca, con tripudio di mimose, in una serata di libertà alla faccia del maschio padrone e prevaricatore negli altri 364 giorni dell’anno. In pratica la negazione della dignità femminile. Una brutta usanza forse interrotta dal Covid che ha imposto chiusure, distanza e più sobrietà. Servirà a riportare un senso a questa festa che, in realtà, sarebbe stata una cosa seria?

L’8 Marzo del 1921 è infatti la data della “Giornata internazionale dell’operaia” che fu stabilita a Mosca per rivendicare i diritti delle lavoratrici. Questa decisione arrivò dopo una serie di fatti, avvenuti in tutto il mondo, che condussero ad una graduale presa di coscienza delle donne, a partire dal primo episodio che colpì l’opinione pubblica all’inizio del ‘900: la morte in una fabbrica di molte operaie rimaste vittime di un incendio. Da allora di strada i movimenti femminili e femministi ne hanno fatta tanta verso la conquista della parità dei diritti nel lavoro, in famiglia, in politica, addirittura nella lingua, sempre più tendente ad annullare ogni discriminazione anche solo per indicare professioni o titoli. Eppure, anche se oggi diciamo la sindaca, l’avvocata, la ministra e la giudice parlando di donne che svolgono queste professioni storicamente attribuite a uomini, c’è molto ancora a segnalarci che questa parità, in fondo in fondo, è ancora tutta da conquistare.

Rossella Placati, Clara Ceccarelli, Lulietha Heshta, Piera Napoli, Roberta Siragusa, Sharon Barni, Sonia Di Maggio, Teodora Casasanta, Victoria Osagie, Ylenia Fabbri sono state uccise dall’inizio di questo 2021 in Italia (ma la situazione non è meno allarmante nel resto del mondo), una ogni cinque giorni. Sono cifre da brivido ma del resto in passato non era andata meglio: il trend è sempre in crescita. Nel 2020 le vittime dei loro ex erano state 91: dati che ci parlano di una realtà gravissima, soprattutto nel civilissimo Occidente cui apparteniamo perché queste morti nascono da una idea distorta e fortemente radicata nella mentalità non solo maschile ma anche femminile. Se una donna rimane al fianco di un uomo che la picchia probabilmente dentro di sé lo giustifica. La mentalità, nonostante il progresso, è rimasta quella che sotto sotto assegna all’uomo il diritto di fare della donna ciò che vuole ma non viceversa. Ed è lì che maturano legami malati in cui l’uno domina e l’altra viene dominata fino a quando viene uccisa perché scappa o denuncia. E’ in queste situazioni che i diritti di una donna vengono negati ed è lì che c’è ancora tanto lavoro da fare.

L’elenco di queste morti è troppo lungo a prescindere ma soprattutto lo è a giudicare dal movente che ha spinto ognuno degli aguzzini ad uccidere la sua vittima, movente che non c’è se si esclude il fatto, appunto, che la donna in fondo ad ogni inconscio maschile non viene considerata titolare della propria vita. Il femminicidio, parola che descrive un reato riconosciuto solo da pochi anni, è una uccisione il cui unico movente è la discriminazione di genere, spesso scambiata nelle aule dei tribunali e, purtroppo, nelle sentenze per “raptus di follia” o “gelosia”, considerate attenuanti per questi episodi orribili e ingiustificabili.

Che questo fenomeno sia sempre esistito non lo fa accettare più di buon grado e il fatto che ci sia una sua progressiva recrudescenza deve portarci tutti a chiederci dove abbiamo fallito nelle nostre rispettive competenze e responsabilità, nei nostri rispettivi ruoli. In una società dove gli uomini uccidono le donne che non riescono a ridurre all’obbedienza c’è qualche problema nei valori e nell’educazione impartita ai bambini e alle bambine a cominciare dalla famiglia. Perché il femminicidio è un cancro della società in cui si manifesta un problema di cultura che deve essere corretto, prima di tutto, dal sesso storicamente considerato forte.

Si, sono gli uomini che devono prendere coscienza ed ammettere che il femminicidio non è una uccisione come tutte le altre ma rientra nella violenza di genere. Uno zoccolo duro da abbattere, una guerra in cui siamo tutti coinvolti a vari livelli ma che non può essere vinta se sono solo le donne a combatterla. Un segnale in tal senso è arrivato. Nei giorni scorsi per la prima volta uomini con scarpe e mascherina rossa hanno manifestato a Roma, a Biella, a Milano contro la violenza di genere raccogliendo una provocazione della giornalista Milena Gabanelli su twitter che chiedeva: “Non è cosa da uomini proteggere le donne?”. Conquistare una parità mai raggiunta in nome di un società più civile deve essere un obiettivo comune. Alla luce di queste considerazioni, buon 8 marzo (e buon lavoro) a tutti.

Gloria Zarletti

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