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Ponzio Pilato, prefetto cinico e implacabile

di | 2023-06-14T19:16:48+02:00 18-6-2023 5:15|Personaggi, Sezione 4|0 Commenti

PERUGIA – Filone di Alessandria, un filosofo ebreo di cittadinanza romana, nella sua “Legatio ad Caium”, redatta all’epoca appunto dell’imperatore Gaio Cesare Caligola, sostiene che Ponzio Pilato fosse “implacabile”, “ostinato”, “senza riguardi” per i giudei e che avesse punito con estrema crudezza i Samaritani per quella che è passata alla storia come “La rivolta del Monte Garazim”, sanguinoso episodio (una vera e propria strage con morti e feriti firmata dai soldati romani) in base al quale Lucio Vitellio, legato di Siria e dunque superiore diretto di Pilato, sospese il funzionario imperiale dall’incarico ricoperto a Cesarea e a Gerusalemme (tra il 26 dC ed il 36 dC) e gli ordinò, su istanza dei giudei, di presentarsi a Roma al giudizio di Tiberio. Pilato giunse nel’urbe pochi giorni dopo la morte dell’imperatore e sparì letteralmente dalla storia. Così come vi era entrato.

La descrizione fornita da Filone collide bruscamente, anzi si scontra, con quella dei Vangeli che descrivono il procuratore come incerto, irresoluto, influenzabile di fronte alla fermezza della posizione di accusa dei sacerdoti del Tempio e come fosse pronto a “lavarsi le mani” del sangue di Gesù Nazareno. Chissà se si troveranno mai nuovi documenti per ottenere un quadro più preciso su questo funzionario che, a dire di Filone, prelevava denaro, senza alcun rispetto religioso, dal Tempio per effettuare lavori civili ed esponeva scudi d’oro nel palazzo di Erode con inciso il nome di Tiberio. Comportamento da romano sprezzante, da duro, da cinico, insomma, su un popolo sottomesso da diversi anni (sotto Augusto).

Mentre, al contrario, nelle testimonianze cristiane, appare pieno di ubbie, titubante, cedevole. Resta la curiosità e la singolarità che Pilato, così arrendevole alle pressanti richieste nei confronti di Gesù avanzate dal Sinedrio e dal popolo di cui temeva ricorressero all’imperatore, sia stato poi esautorato per la esagerata crudeltà dispiegata contro i Samaritani e proprio sulla scorta di una protesta formale degli stessi ebrei!

Di Ponzio Pilato oltre a Filone di Alessandria (20 aC-45 dC), parlano pure Tito Giuseppe Flavio (37 dC-100 dC), vissuto al tempo dei Flavi, generale ebreo, poi scrittore e cittadino romano, nelle “Antichità giudaiche”; Publio Cornelio Tacito (55 dC-120 dC) negli “Annales”; Plinio il Giovane (61 dC-114 dC) nella lettera, inviata tra il 11 ed il 112 dC, all’imperatore Traiano, sul modo di comportarsi con la setta dei cristiani. Fonti letterarie, dunque. Ma che il prefetto sia storicamente esistito lo conferma l’epigrafe ritrovata a Cesarea nel 1950 da un gruppo di archeologi italiani, sotto la guida di Antonio Frova. La pietra era stata riusata quale gradino di un teatro del IV sec. dopo Cristo. Vi è incisa una frase che suona, in italiano, “Ponzio Pilato prefetto di Giudea dedicò il Tiberium”, evidentemente un edificio pubblico.

Prefetto, dunque e non procuratore. Il quinto nominato da Roma dopo Valerio Graio e prima di Marcello, l’ultimo della serie. Il reperto lapideo originale si trova nel Museo di Gerusalemme, una copia in gesso è esposta all’Archeologico di Milano. Gli studiosi ritengono che Pilato (cognomen derivante, forse, da “pilum”, giavellotto o dardo) provenisse da una famiglia di origine sannitica e di censo equestre. Una leggenda sostiene (la narra Eusebio di Cesarea, 265 dC-340 dC) che l’ex governatore si sia suicidato, gettandosi nel Tevere, dopo il suo rientro a Roma. Un’altra che si fosse pentito di aver crocifisso il “rabbi” della Galilea e avesse abbracciato la fede cristiana. Tanto da venir considerato un santo e martire dai Copti e festeggiato il 25 giugno. Qualche altro aggiunge che avesse una moglie (Claudia Procula; pur senza citarne il nome ne parla pure uno degli evangelisti: avrebbe inviato, durante il processo, un servo per suggerire al marito di non far del male al prigioniero) e che abbia finito la sua esistenza, da emarginato, nelle Gallie.

Chissà come e perché abbia pronunciato nell’interrogatorio svoltosi nel Pretorio, in risposta al Nazareno (che aveva spiegato di essere venuto al mondo “per rendere testimonianza alla verità”), quella frase: “Che cos’è la verità?”, alla quale il prigioniero non fece in tempo a rispondere, in quanto Pilato si rivolse subito ai sommi sacerdoti, agli scribi, ai sadducei e al popolo sostenendo che non vedeva colpe nell’accusato. Ma i giudei insistevano sempre più rumorosi e apparentemente disposti ad una sommossa e Pilato “pieno di paura” (lo scrive l’apostolo nel quarto vangelo) fece prima fustigare il prigioniero e lo consegnò poi agli accusatori per farlo crocifiggere con la scritta in ebraico, in latino ed in greco “Jesus Nazarenus rex iudeorum”.

Sant’Agostino

“Quid est veritas?”, frase riportata nel vangelo di Giovanni, suona o come una replica ironica o, addirittura, di scherno, oppure come la critica di un filosofo scettico o comunque di un intellettuale. Mentre le poche informazioni che si hanno su Pilato lo indicano come militare e funzionario statale.

Ancora oggi, tra i pensatori contemporanei, si discetta, come nell’antichità, intorno al concetto filosofico di “verità”. Interessante quello che sostiene Agostino di Ippona – sì, proprio Sant’Agostino – che anagrammando le parole latine della domanda di Pilato, vi scopre e vi legge la replica, indiretta dell’uomo poi crocifisso: “Est vir qui adest”, cioè: “È l’uomo davanti a te”.

Elio Clero Bertoldi

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