PALERMO – “Credevate che le superpotenze fossero le vere padrone della Terra o pensavate di dipendere dai mercati di Stati Uniti, Cina o Unione Europea? Vi sbagliate. la Nazione delle Piante è l’unica, vera ed eterna potenza planetaria. Senza le piante, gli animali non esisterebbero; la vita stessa sul pianeta, forse, non esisterebbe e, qualora esistesse, sarebbe qualcosa di terribilmente diverso”. Questo l’intrigante punto di partenza proposto da Stefano Mancuso nel testo “La nazione delle piante” (Laterza, Bari/Roma, 2019, € 12), nel quale l’autore, che dirige a Firenze il Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale, offre una sorta di “Costituzione vegetale”, tramite cui “le piante, come genitori premurosi corrono di nuovo in nostro soccorso, regalandoci delle regole da seguire come vademecum per la sopravvivenza della nostra specie”.
Oggi, sottolinea Mancuso, consideriamo “la Terra cosa nostra. Ne abbiamo diviso la superficie in Stati e ne abbiamo assegnato la sovranità ai diversi gruppi umani, che a loro volta l’hanno affidata a un limitatissimo numero di persone. Poche persone sono responsabili della sovranità dell’unico pianeta dell’universo sul quale esiste la vita”. Il primo passo da fare allora è quello di liberarci dall’antropocentrismo esasperato che rischia di farci estinguere precocemente e di compromettere la vita di milioni di altri esseri viventi.
Ecco allora il primo degli otto articoletti della Costituzione verde: “La Terra è la casa comune della vita. La sovranità appartiene a ogni essere vivente”. Principio però disatteso dagli esseri umani che esercitano una signoria assoluta sul pianeta. In nome di quale diritto? Tralasciando un’ipotetica investitura divina, ci sentiamo i signori sulla Terra forse perché i più numerosi? O ci sentiamo superiori perché “abbiamo dipinto la Cappella Sistina, scolpito la Venere di Milo, ideato la teoria della relatività”? Mancuso mette in discussione tali primati: il primo, perché gli oltre sette miliardi e mezzo di uomini e donne sulla Terra costituiscono comunque solo un diecimillesimo dell’intera biomassa del pianeta; il secondo perché, se nella storia della vita consideriamo migliori gli organismi capaci di sopravvivere meglio e più a lungo, scopriamo che alcune specie vegetali ci sono da due o trecento milioni di anni e, in generale, la vita media di una specie, animale o vegetale, è pari a 5 milioni di anni, mentre noi umani fatichiamo a ipotizzare una nostra sopravvivenza che vada oltre poche migliaia di anni: “E se svanissimo domani, fra mille anni o fra centomila, in altri centomila anni cosa rimarrebbe della Cappella Sistina, della Venere di Milo… A chi importerebbe di queste meraviglie?”. Se vogliamo salvaguardare l’unicità creativa e speciale dell’umanità dobbiamo “essere consapevoli del disastro che i nostri consumi stanno creando (…) ma anche arrabbiati verso un modello di sviluppo che, per premiare pochissimi, distrugge la nostra casa comune”.
Ci vengono ancora in soccorso gli articoli della Costituzione vegetale, che ci schiudono orizzonti di largo respiro e prospettive nuove: “La Nazione delle Piante riconosce e garantisce i diritti inviolabili delle comunità naturali come società basate sulle relazioni basate fra gli organismi che le compongono (…); rispetta i diritti dei viventi attuali e di quelli delle prossime generazioni; la Nazione delle Piante non riconosce le gerarchie animali, fondate su centri di comando e funzioni concentrate, e favorisce democrazie vegetali diffuse e decentralizzate”.
Ha ancora senso dunque collocare al livello inferiore della natura le piante che, capaci di fotosintesi “unica responsabile dell’intera produzione di materia organica prodotta per via biochimica”, sono il vero motore della vita? E sono proprio le piante a suggerire organizzazioni decentrate, prive di quel centralismo gerarchico che tanti guai ha procurato alla società umana; le piante a invitarci ad abbandonare la convinzione di essere fuori dalla natura, a indurci a un ripensamento critico della nostra era, l’antropocene, caratterizzata dal predominio nefasto delle attività umane nell’ambiente terrestre.
Una rilettura corretta di Darwin ci libera poi dal preconcetto che, in natura, sopravvivano i più forti: ad avere la meglio sono gli individui con maggiore capacità di adattamento. Così non la competizione, ma la relazione e la cooperazione tra le specie risultano vincenti per la vita: “A qualsiasi livello sono le comunità, intese come relazioni fra i viventi, che permettono la persistenza della vita”. “E dunque la forza delle comunità ecologiche è uno dei motori della vita sulla Terra”.
“La Nazione delle Piante” è allora una sorta di “breviario” verde su cui tutti dovremmo meditare. Partendo dal considerare il pianeta un organismo vivente; la cui preziosa bellezza ci è stata restituita da una foto scattata dagli astronauti dell’Apollo 8, nel 1968: “Quella foto cambiò per sempre la nostra idea della Terra, rivelandoci un pianeta di maestosa bellezza, ma anche fragile e delicato. Un pianeta verde per la vegetazione, bianco per le nuvole e blu per l’acqua. Questi tre colori che sono la firma del nostro pianeta non esisterebbero senza le piante. Sono loro a rendere la Terra ciò che conosciamo.”
Infine un’indicazione concreta: avere cura delle piante, piantare alberi, fermare la deforestazione, vero crimine contro l’umanità: “La regola dovrebbe essere una sola e semplice: dovunque sia possibile far vivere una pianta, deve essercene una. “Chiunque è chiamato a mobilitarsi, e se credete che stia esagerando e non vedete alcun vero motivo per alzarvi dal divano per difendere l’ambiente e le foreste, sappiate che questa è l’unica, vera, emergenza mondiale”.
Non potremo dire di non essere stati avvertiti…
Maria D’Asaro
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