PALERMO – Pare che la sua forza espressiva abbia ispirato persino Picasso per la celeberrima Guernica: si tratta de “Il Trionfo della Morte”, un affresco staccato maestoso e imponente (6 metri di altezza per 6,42 di larghezza), conservato a Palermo nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis.
L’opera, di autore ignoto, risale al 1446 circa e proviene dal cortile di Palazzo Sclafani, sede nel quindicesimo secolo del primo grande ospedale pubblico del capoluogo siciliano. L’affresco rimase per cinque secoli a palazzo Sclafani; ma nel 1943 i bombardamenti della seconda guerra mondiale distrussero il tetto dell’edificio compromettendo l’integrità del dipinto che, dopo due restauri, fu collocato definitivamente a Palazzo Abatellis.
L’elevato livello artistico dell’affresco fa ipotizzare una committenza reale, che avrebbe chiamato un artista straniero a realizzarlo: regnava allora a Palermo Alfonso V d’Aragona, sovrano colto e illuminato, fautore di scambi artistici e culturali con altri Paesi. Chiunque sia stato l’autore dell’opera – il francese Guillaume Spicre? il pittore spagnolo Peris Gonzalo? l’inglese Maestro di Barthélemy? addirittura il giovane Antonello da Messina? – il tema del trionfo della Morte, già diffuso nel Trecento, viene qui rappresentato con espressività significativa e potente, con una particolare insistenza ossessiva sul tema del macabro.
La Morte, che irrompe in un giardino sul dorso di un enorme spettrale cavallo scheletrico, lanciando frecce che uccidono personaggi di tutte le fasce sociali, occupa la parte centrale dell’affresco. La Morte ha al suo fianco la falce e una faretra, suoi tipici attributi iconografici, ed è raffigurata nell’attimo in cui ha appena scoccato una freccia, che ha colpito il collo di un giovane, nell’angolo destro in basso. Lì si trova il gruppo degli aristocratici che, tranne quelli più vicini ai cadaveri, continuano imperterriti le loro attività. Tra essi ci sono musici, dame riccamente abbigliate e cavalieri, come quelli che chiacchierano ai bordi della fontana, simbolo di vita e di giovinezza.
Ecco, in una sintesi, cosa scrive del dipinto la professoressa Mariasole Garacci, anche sulla base di un testo del professore Michele Cometa: “Si tratta di una delle più impressionanti opere d’arte di tutta la cultura figurativa occidentale, scaturita dalla particolare congiuntura di un attardato medioevo siciliano al crocevia tra la Spagna, la Borgogna e Napoli. La visione di questo affresco è esattamente quella di una fotografia istantanea che coglie la varietà di espressioni e sentimenti di coloro che stanno per essere raggiunti dalla morte, o che ne sono stati appena colpiti.
Su questo dipinto Michele Cometa, docente di Storia comparata delle culture e Cultura visuale all’Università degli Studi di Palermo, ha pubblicato un saggio, Il Trionfo della morte di Palermo. Un’allegoria della modernità, che ne propone una lettura originale e moderna. Il Trionfo della Morte è per Cometa un testo figurativo di straordinaria modernità che evade i limiti delle consuete rappresentazioni dello stesso soggetto e quelli delle danze macabre che, nel XV secolo, si diffondono in tutta l’Europa settentrionale: trionfi e danze macabre, il cui terribile monito o pauroso nichilismo sub specie mortis è ancora presente nel nostro immaginario, ma pur sempre espressione di una spiritualità pessimista e religiosa di stampo medievale.
Non si tratta invece, nel Trionfo palermitano, della promessa di una giustizia divina che risarcisca gli squilibri sociali del mondo, o di predicare la folle vanità del tutto, bensì di una umana e laica riflessione, disincantata ma, come si vedrà, non pessimista, sulla sofferenza dell’uomo, sul suo rapporto con la morte, e sul silenzio di Dio. Cometa puntualizza infatti che: “Ad essere determinanti non sono le fonti dunque o le analogie iconografiche, né la vana ricerca dell’autore. Ciò che conta è il riconoscimento del segnale che da questa immagine si diparte, una luce che intercettiamo e comprendiamo perché ci parla di un’esperienza che s’irradia nel nostro mondo, nel nostro tempo, che determina ancora oggi i nostri sentimenti, le nostre azioni… Davanti alla morte siamo tutti uguali: questa la lezione che trionfi, danze e artes moriendi continuano a trasmetterci. Ma siamo soprattutto sempre gli stessi”.
E la studiosa conclude così la sua analisi: “Il retribuzionismo medievale e dantesco sembra però rovesciato, perché se la morte lascia dietro di sé, risparmiandoli, proprio i poveri, che esausti invocano la fine delle loro sofferenze, e colpisce inesorabile i ricchi e i potenti, sono i poveri in realtà a restare delusi e sconfitti. Nulla, in questa raffigurazione, suggerisce un risarcimento postumo, una vita eterna dopo la morte: tutto parla della morte come di un problema esistenziale, a prescindere da Dio. Restano la compassione, l’empatia e la cura nei confronti del prossimo – unica soluzione tutta terrena al vuoto di senso sperimentato dall’uomo – rappresentate da alcuni personaggi colti in un sospeso e silenzioso concatenarsi di sguardi e mani che si sfiorano. Infine, il personaggio del falconiere che si distrae dalla scena, guardando oltre la siepe, potrebbe essere una citazione da un passo finale del libro sapienziale di Giobbe, in cui si rivela una soluzione delle sofferenze umane nell’invito ad affrontarle in una prospettiva cosmica e non ego/antropocentrica. Non già ricorrendo, dunque, a una consolatoria promessa di vita eterna o rivolgendosi a Dio, ma esercitando qui, nella nostra vita terrena, la capacità di elevare lo sguardo poco più in là della nostra limitata persona.”
Maria D’Asaro
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