PALERMO – Un cronista, per fare bene il suo mestiere, deve districarsi anche tra i numeri, la statistica e i metodi della ricerca sociale. Lo aveva capito già nel 1969 Philip Meyer, il giornalista statunitense che, proprio per questo, andò a studiare ad Harvard sociologia, statistica e i metodi della ricerca psicosociologica. A conclusione degli studi, Meyer scrisse un saggio di successo: Precision Journalism; nel libro, che già contemplava l’utilizzo dei computer e delle analisi dei dati, l’autore sosteneva appunto che il giornalista del futuro, per fornire ai lettori un buon servizio, non potrà limitarsi a una “buona narrazione” della notizia, ma dovrà possedere anche la competenza necessaria per raccogliere e analizzare i dati relativi all’avvenimento di cui si occupa.
A consacrare negli USA la diffusione e il riconoscimento del “giornalismo di precisione” furono due inchieste, premiate con il Premio Pulitzer nel 1989 e nel 1993. La prima, “Il colore dei soldi”, opera di Bill Dedman, dimostrò che ad Atlanta, capitale della Georgia, gli istituti di credito preferivano concedere prestiti ai poveri indigenti bianchi, più che ai neri dei quartieri della “middle-class” o anche più ricchi, evidenziando la pregiudiziale razziale delle banche.
La seconda, “What Went Wrong” (“Cosa è andato storto”), fu effettuata da Stephen Doig per il Miami Herald e si occupò dei danni causati dall’uragano “Andrew”, abbattutosi su Miami nel 1992. Doig riuscì a dimostrare che, più della forza dell’uragano – che gli aveva portato via metà del tetto della sua casa, nonostante fosse abbastanza nuova – a distruggere le abitazioni cittadine era stata la corruzione nell’edilizia. L’inchiesta di Doig venne effettuata mettendo in connessione quattro serie di dati: i rapporti di 50.000 accertamenti sui danni provocati dall’uragano; il ruolo delle imposte patrimoniali del 1992, con informazioni dettagliate sulle caratteristiche delle abitazioni; il catasto della contea, con dati sul tipo di costruzione e sui materiali usati per ciascun edificio; infine, i dati della contea riguardanti le aree edificabili, con le licenze edilizie e le ispezioni negli anni precedenti. Un diagramma riassuntivo includeva anche la velocità del vento, evidenziando che nelle aree con venti più lievi, da 130 a 200 km all’ora, le case costruite dopo il 1979, le più nuove, avevano una probabilità tre volte maggiore di rimanere inagibili rispetto a quelle costruite prima.
Doig dimostrò così che la corruzione che si era creata nell’edilizia urbana, che aveva modificato i regolamenti edilizi, aveva consentito di costruire case meno sicure, più fragili sotto la forza di un uragano. L’inchiesta di Doig è diventata la dimostrazione evidente del ruolo di servizio pubblico di un certo tipo di giornalismo.
Oggi al termine “giornalismo di precisione” si preferisce quello di “data journalism” o giornalismo dei dati, che indica inchieste e articoli realizzati servendosi degli strumenti della matematica, della statistica, delle scienze sociali e comportamentali, nonché dell’utilizzo dei fogli di calcolo, del confronto di vari documenti, della rappresentazione grafica e dell’interpretazione dei dati, della realizzazione di sondaggi.
Tale approccio non può prescindere dal libero accesso alle banche dati di enti e pubbliche amministrazioni. Negli ultimi anni, è in corso una vera e propria battaglia civile per l’accesso ai ‘”dati aperti”, noti ormai come “open data”: termine che indica il flusso di dati accessibili a tutti, con l’unica restrizione dell’obbligo di citare la fonte o di mantenere la banca dati sempre aperta.
I dati – lo si è visto chiaramente nel corso dell’attuale pandemia – sono parte fondamentale dell’informazione. Anche in Italia, con la normativa FOIA (Freedom of Information Act), introdotta con D.l. 97/2016, dopo la riforma della pubblica amministrazione sancita dalla legge n.124 del 7.8.2015, l’ordinamento giuridico riconosce come diritto fondamentale la libertà di accedere alle informazioni in possesso delle pubbliche amministrazioni. Il principio guida è la tutela dell’interesse conoscitivo di tutti i soggetti della società civile. In assenza di ostacoli riconducibili ai limiti di legge, le amministrazioni devono garantire il diritto di tutti di accedere alle informazioni della pubblica amministrazione: giornalisti, imprese, cittadini possono richiedere dati e documenti, per svolgere un ruolo di controllo. La norma dovrebbe anche favorire una maggiore trasparenza nel rapporto tra le istituzioni e la società civile, incoraggiando un dibattito pubblico su temi di interesse collettivo.
L’accesso civico generalizzato ai dati è però ancora parziale. Ѐ attiva da tempo nel nostro Paese la campagna #datiBeneComune, con lo scopo di favorire e supportare la trasparenza come prassi diffusa, specie nell’amministrazione pubblica, e gli “open data” come principale strumento per attuarla.
In Sicilia in particolare – anche a seguito delle recenti indagini giudiziarie sulla falsificazione dei dati sui contagi Covid-19, che hanno portato all’arresto di tre funzionari della Regione Siciliana e all’apertura di un’indagine a carico dell’Assessore alla Salute, poi dimessosi – la comunità “Open Data Sicilia” ha diffuso un appello affinché i dati relativi all’emergenza pandemica siano resi disponibili subito e a tutti. Eccone un passaggio, con la significativa conclusione: “Open Data Sicilia chiede che venga reso noto l’intero processo di pubblicazione dei dati sanitari COVID-19, ovvero l’insieme dei meccanismi e protocolli utilizzati all’interno del proprio modello organizzativo per tutti gli aspetti legati alla raccolta, produzione, trattamento, aggiornamento e rilascio dei dati online. La trasparenza del ciclo di vita del dato, condizione che consente a cittadine/i di misurare e valutare l’attività amministrativa, è il presupposto essenziale di una democrazia moderna”.
Maria D’Asaro
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