di COSTANZA RENNA – A volte quando si è affetti da malattie o disagi, non sempre il malato riesce a parlarne con un altro essere umano. Per tale motivo Boris Levinson nei primi anni ’60 inventò una nuova cura chiamata PET THERAPY.
Con questo termine si indica letteralmente la terapia dell’animale che si affianca a tradizionali cure, trattamenti e interventi socio-sanitari già in corso.
Essa non rappresenta una terapia in sé, ma s’identifica come un intervento aggiuntivo che aiuta a rafforzare ed arricchire le tradizionali terapie e può essere impiegata su pazienti di qualsiasi età e affetti da diverse patologie con l’obiettivo di migliorare la qualità di vita dell’individuo e del proprio stato di salute rivalutando, nel contempo, il rapporto fra l’uomo e l’animale. É un intervento dolce che stabilisce armonia tra uomo e natura apportando grandi benefici all’uomo. Inoltre la presenza di un animale permette in molti casi di rafforzare il rapporto emotivo tra paziente e dottore.
Fondamentale è individuare l’animale corretto per il singolo paziente in base alle preferenze personali, alle capacità psico-fisiche, all’analisi delle eventuali fobie specifiche, alle allergie e in base alla risposta emotiva nelle prime sedute. Gli animali maggiormente impegnati nella Pet Therapy sono i cani, ma è molto diffusa anche l’ippoterapia, con i cavalli. Lo stesso Ministero della Salute ha sentito l’esigenza, nel 2015, di redigere delle linee guida per il settore degli “Interventi Assistiti con gli Animali”, riservando parte del testo al mondo della terapia con il cavallo. La Dichiarazione universale dei diritti dell’animale ha evidenziato la necessità di utilizzare animali detti da affezione e non animali selvatici perché come stabilito dalla, questi ultimi si sono evoluti in ambienti naturali e non antropici come quelli in cui interviene la Pet Therapy, quindi l’utilizzo di animali non di affezione rappresenterebbe una privazione della libertà.