di Simone Ricchiuto (III D) – “Sulla mia pelle” è un film tratto dalla storia, realmente accaduta, di Stefano Cucchi, avvenuta nel 2009 a Roma.
La storia di Cucchi è analoga alle altre 172 storie dei morti in carcere per la medesima causa: violenza da parte di rappresentanti delle Forze dell’Ordine.
Stefano, la sera del 15 ottobre 2009, viene fermato ed arrestato poiché in possesso di hashish, cocaina e di una pasticca per l’epilessia. In carcere il giovane viene pestato a sangue di nascosto da tre carabinieri che lo avevano arrestato, riportando molteplici lesioni ed ematomi, principalmente sul viso e sulla schiena.
Il giorno dopo l’arresto, processato per direttissima, viene condannato alla reclusione dalla giudice. Da questo momento inizia il vero e proprio calvario di Stefano e della sua famiglia, che non riesce nemmeno ad avere alcuna notizia del figlio.
Le condizioni del giovane peggiorano ulteriormente fino alla morte avvenuta il 22 ottobre.
Il film, diretto da Alessio Cremonini, ci ripropone al meglio le emozioni dell’ultima settimana di vita del giovane Stefano (nel film interpretato da uno splendido Alessandro Borghi), la tragicità della storia e degli errori che il ragazzo ha poi pagato sul suo corpo (non per niente il film s’intitola “Sulla mia pelle”).
Ancora oggi si sta cercando di scoprire tutta la verità su una vicenda che, come tante, non dovrebbero mai e poi mai accadere: i rappresentanti delle Forze dell’Ordine dovrebbero dare l’esempio e non sfruttare in modo improprio – come in questo caso – la loro autorità. Stefano aveva sbagliato, ovviamente, tanto che anche lui ammise di fare uso di quelle sostanze, ma non meritava certamente tutto ciò che ha subito. L’errore di Stefano non è minimamente paragonabile alla maggior parte dei reati dei nostri giorni.
La mia non è assolutamente una critica all’operato delle Forze dell’Ordine, a cui dobbiamo la nostra sicurezza, e/o tantomeno alla Giustizia italiana: è una critica a tutte quelle autorità che sfruttano impropriamente il loro “potere”. Stefano, e tutti coloro che subiscono queste ingiustizie, non meritano tutto ciò: sbagliare è pur sempre umano.
Le ambientazioni interne del film, caratterizzate da luci sempre basse e cupe, contribuiscono ad aumentare il senso di oppressione e di angoscia della storia. Emerge chiara la volontà del regista di voler mettere in evidenza l’indifferenza, la cecità di fronte all’evidenza e la vigliaccheria che, a volte, coinvolgono gli organismi e gli apparati statali.