di Renato Visciano
E se una persona potesse ricominciare la sua vita, ma mantenendo lo stesso corpo? Che succederebbe se una donna incinta si suicidasse e venisse riportata in vita trapiantandole il cervello del figlio mai nato? Sarebbe figlia o madre? Questa è la premessa della nuova pellicola del regista greco Yorgos Lanthimos, che attinge dall’omonimo romanzo dello scozzese Alasdair Gray e mette in scena una storia di crescita e scoperta, del mondo e di sé, con uno stile indubbiamente unico.
Sul finire del XIX secolo, Bella viene rianimata dal mostro-scienziato Godwin Baxter (che Bella chiama God, Dio) e inizia la sua “nuova” vita, crescendo in un corpo che già ne ha vissuta una. Bella impara a parlare e camminare, ma soprattutto a cogitare (come lei stessa dice), molto più velocemente di una normale bambina, nonostante sia costretta a un’esistenza isolata dal mondo, studiata e custodita gelosamente dal “padre”. Godwin, interpretato dal leggendario Willem Dafoe, tratta Bella come una figlia: peccato però che il suo esempio di genitorialità sia il suo stesso padre, che ha usato il corpo del figlio come il tavolo da gioco dell’allegro chirurgo per i suoi esperimenti. Quindi Baxter, con l’aiuto dell’apprendista Max, indaga sulla psiche della sua “creatura”, quasi dimenticando di avere a che fare con un essere umano, che ha insita in sé la volontà di esplorare e conoscere. Istigata dall’avvocato Duncan Wadderburn, Bella abbandona il “padre” e il promesso sposo Max per andare all’avventura: sia nel mondo gotico architettato da Lanthimos, sia nella propria, intricata, anima.
Povere Creature! è di evidente ispirazione Frankensteiniana (il nome di battesimo di Mary Shelley era Mary Wollstonecraft Godwin, proprio come lo scienziato del film), con tratti dell’horror gotico e grottesco tipico del romanzo del 1818. Lanthimos trasmette questi aspetti con la musica e con le sue inquadrature non convenzionali, grandangoli e giochi di lenti, che condisce con una completa trasparenza che a tratti mette a disagio lo spettatore, dal frequente nudo ai cadaveri dissezionati (per i deboli di stomaco è preferibile coprirsi lo sguardo in alcune scene) da Godwin, mantenendo sempre l’ironia equivoca che caratterizza la pellicola. Inoltre, è geniale l’uso del bianco e nero, che lascia spazio ai colori sgargianti appena Bella comincia ad esplorare il mondo e a capirlo pian piano, dando modo al pubblico di godersi i meravigliosi set in cui è ambientato il film.
Il vincitore del Leone D’oro 2024 affronta temi come la conoscenza di sé e la crescita, ma anche il rapporto tra scienza e moralità e l’ingiustizia della povertà. Soprattutto sul finale, dove rallenta il ritmo, si concentra sull’emancipazione femminile, vera meta del viaggio di Bella, e lo fa con molta più delicatezza del Barbie di Greta Gerwig.
Emma Stone, che ha già vinto il Golden Globe per la sua performance come Bella Baxter, riesce a rappresentare al meglio la follia di essere una bambina nel corpo di una donna: passa da neonata ad adulta nell’arco del film e in ogni scena riesce a donare una nuova sfumatura alla sua Bella, che piano piano prende coscienza. Con questa prova la Stone si candida prepotentemente come miglior attrice protagonista agli Oscar, e rischia di affiancare un’altra statuetta a quella vinta per La La Land nel 2017. Sono degne di nota anche le interpretazioni di Willem Defoe, che clamorosamente non è stato nominato a miglior attore non protagonista, a differenza del collega Mark Ruffalo, anch’egli autore di un’ottima prova.