Nel maggio 1961 Piero Manzoni riempie 90 scatolette di latta con le sue feci. L’artista dichiara che in ciascuna di esse si trovano 30 grammi della propria sostanza fecale. Le espone al pubblico il 12 agosto, nella galleria di Albissola, ridente cittadina della Liguria, e rimane scioccato della sua impresa. Le scatolette, che sono uguali a quelle in cui, negli anni ’60, in Italia si incominciava a trovare la carne conservata, sono numerate da 1 a 90. La loro etichetta presenta la scritta “Merda d’artista. Contenuto netto gr 30. Conservata al naturale. Prodotta ed inscatolata nel maggio 1961” in italiano, inglese, francese e tedesco e sopra si può trovare la firma di Piero Manzoni.
C’è soltanto una domanda da porsi: perché?
L’autore lombardo, con la sua opera, ha voluto denunciare i meccanismi del sistema dell’arte contemporanea. A suo parere un’opera può essere banale, scadente ma se è firmata dall’artista e l’originalità è garantita, allora ecco che anche una scatoletta di feci diviene un capolavoro. Il “caccautore”, come viene nominato, ha proposto anche di vendere il frutto della sua arte come se in ogni scatoletta ci fossero 30 grammi d’oro. E così è successo. Nel 2007, in una delle sale della casa d’aste di Sotheby’s a Milano, un collezionista privato si è aggiudicato la scatoletta n°18 per 124 mila euro; nel 2016, a “Il Ponte” a Milano, la scatoletta n° 69 è stata venduta alla modica somma di 275 mila euro.
Ma nelle scatolette c’è davvero ciò che c’è scritto ci sia?
Alla domanda ci sono varie fonti che rispondono. Secondo Agostino Bonalumi, amico di Piero Manzoni, si tratta di gesso; secondo altri, invece, Piero avrebbe acquistato delle scatolette di carne a lunga conservazione e sostituito le etichette con le sue. Succede anche nella società odierna che, se hai un prodotto di un marchio famoso, è automaticamente bello, talvolta migliore di una cosa identica ma meno acclamata. Bisogna andare oltre l’etichetta e valutare l’oggettività e la qualità del prodotto.