di Redazione
Le maschere furono introdotte nel teatro greco da Tespi l’inventore della tragedia che intorno al 530 a.C. cominciò a far usare agli attori maschere di lino, sughero e poi di legno.
Prima di allora gli attori si erano limitati a pitturarsi il volto. La ragione per cui la maschera arrivò sulle scene era logistica prima ancora che simbolica: occorreva amplificare tutto, dalla voce alla fisionomia del volto.
La distanza che separava l’attore dal pubblico era di almeno 18 metri dalla prima fila – orchestra compresa – e più di 90 metri dall’ultima. La voce veniva amplificata dalla maschera che fungeva da megafono. Anche l’espressione del volto doveva essere accentuata, altrimenti non sarebbe stata compresa da lontano e quindi la maschera serviva pure a quello.
Il pubblico doveva individuare subito il personaggio è per farlo guardava proprio le maschere. Inoltre per facilitare il riconoscimento dei personaggi gli attori indossavano delle scarpe con la suola straordinariamente alta, i cosiddetti coturni che servivano a far meglio vedere i personaggi sulla scena anche da lontano.
Le maschere avevano i tratti del volto molto accentuati: piangenti nei drammi e sorridenti nelle commedie. Servivano a rappresentare il carattere del personaggio mentre nascondevano l’individualità dell’attore.
Questo senso duplice di svelamento e occultamento è ben reso dalla duplice etimologia della parola: in latino maschera significa persona, mentre in arabo il termine maskharah vuol dire caricatura, beffa. Un grande uomo di teatro del novecento Jerzy Grotowsky sosteneva che il teatro fosse la verità dichiarata finta, un concetto pienamente rappresentato dalla funzione duplice della maschera dal teatro greco in avanti.