Salvatore Pettrone III C – La figura della madre è cara ai propri figli quanto lo è per l’arte: protettrice, santa, odiata, sensuale, rappresenta un immaginario comune e punto di riferimento, quanto mai stancante, nella vita degli intellettuali. Gli antichi avevano già dato un’interpretazione di questa figura, che mai può definirsi “maschera” nel senso plautino del termine, in tutte le sue sfumature: capace di uccidere i propri figli per vendetta personale contro l’amato che la ripudia, come descrive Euripide nella Medea; in antitesi la figura materna per eccellenza, Maria, madre di Cristo, “sine labe originali concepta”. In altri luoghi, quale la commedia menandrea, viene presentata alla pari degli altri personaggi, mettendone in risalto l’amore che nutre per il marito più che per il figlio, che addirittura abbandona alla nascita; è il caso di Panfilo dell’Arbitrato. Nella letteratura latina, uno dei passi più belli che contempla, in modo realistico, la figura della madre è nelle Bucoliche di Virgilio, nel quale si rivolge un invito all’uomo a sorridere alla donna che lo ha portato in grembo per ben nove mesi: “Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem, matri longa decem tulerunt fastidia menses” “Inizia, piccolo fanciullo, a riconoscere con sorriso la madre, alla quale recarono travaglio dieci lunghi mesi” E’ ancora lo stesso Virgilio che rappresenta una Venere materna nei confronti del figlio Enea, così come lo è Teti con l’Achille omerico. Seneca, dal canto suo, le dedica un’intera opera, la Consolatio ad Helviam matrem, per rassicurarla della sua condanna e del suo esilio in Corsica. Nel corso del Medioevo, grandi poeti come Dante e Petrarca, più che rivolgersi alle loro madri, concludevano le loro opere con un canto di lode alla Mamma di tutte le mamme: nel Paradiso, canto XXXIII, “Vergine Madre, figlia del tuo figlio”, e nel Canzoniere, “Vergine bella, che di sol vestita”. Non può di certo mancare la madre foscoliana descritta in “In morte del fratello Giovanni”, la quale “Parla di me col tuo cenere muto”, e neppure la commovente scena della madre di Cecilia nei Promessi Sposi, emblema del dolore per la perdita della figlia, “Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme”. (cap.XXXIV) Nel Novecento, la madre è stata esplicitamente cantata come la destinatrice di alcuni componimenti: in d’Annunzio, in Consolazione, il figlio consola la madre abbandonata per lunghi anni, e la invita a sorridere del suo ritorno, con il suono del cembalo. In Saba viene ripreso questo filone già anticipato da d’Annunzio, che consiste nel rievocare la madre morta e nel ringraziarla per esserci sempre stata e per averlo accompagnato nei momenti più bui dell’adolescenza. In Montale ella rimarrà viva finché lo sarà anche lui, finché sarà viva la forza del suo ricordo. Innumerevoli sono le opere di ogni letteratura nazionale che hanno rappresentato questo mito comune, mai instancabile, mai fin troppo presente e che continuerà ad esserci finché esisterà l’arte stessa, perché come cita un proverbio napoletano,
“A mamma è sempe ‘a mamma”.