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li italiani devono proclamarsi
razzisti”. È con questa
semplice frase che si
possono riassumere
tutte le incongruenze
della società dell’epoca. Una citazione in un
contesto apparentemente scientifico. Si
tratta del settimo punto illustrato ne “La Difesa della Razza”, il famigerato documento
che mancava di scienza e fondamenta logiche, pubblicato nel
lontano 1938, promotore di un sentimento
razzista nei confronti
degli stranieri, in particolare degli ebrei.
È così che l’autore, genetista e professore
Guido Barbujani apre
l’incontro, sottolineando come la scienza,
agli inizi del Novecento
italiano, fosse piegata
alla propaganda politica. I politici miravano
ad una catarsi della
razza umana, alla purificazione completa
che alienava ogni traccia esterna. Si parla di
lontananza storica, ma
in realtà l’ignoranza
persiste nel tempo, rivelandosi come lo
specchio del pregiudizio e dell’inesattezza
culturale. Come se
proiettarsi nel 1938
non fosse abbastanza,
l’autore effettua un ulteriore passo indietro,
riportando i presenti a milioni di
anni addietro,
quando il concetto di razza
ancora non era
stato concepito.
Il mondo era
predominato da
diverse popolazioni: in Asia si
trovava l’homo
Erectus, in Europa l’homo di
Neanderthal, in
Indonesia l’homo di Flores, in
Africa l’homo
Sapiens. È su
quest’ultimo che
Barbujani si sofferma con particolare interesse. Ma
allora perché provare
sentimenti razzisti nei
confronti di individui
che, all’interno del loro
corpo, sono identici a
noi? La risposta si può
rilevare nuovamente
nel 1938. Le aspirazioni razziste derivavano
da un unico credo: l’unione tra le razze
equivaleva ad un attentato alla purezza
della propria razza.
Eppure, durante il corso della storia diversi
filosofi e pensatori hanno individuato tipologie di razze. Alcuni
esempi sono rilevabili
grazie a Linneo, che nel
‘700 divise la specie
umana in quattro parti
riferendosi agli elementi
della natura (fuoco, terra, acqua, aria). In seguito sono rilevabili in
Blumenbach, con l’introduzione del termine
caucasico. Poi Kant, che
incluse i calmucchi.
Quindi nel ’900 con
Frank Livingstone si afferma la non veridicità
scientifica del concetto
di razza. Gli studi più
recenti hanno confermato che gli esseri
umani condividono il
99,9% di
DNA, ed il
restante
1‰ è formato da più
di 3 milioni
di variabili
che ci rendono diversi
dagli altri,
spesso addirittura più
simili a persone provenienti da
continenti
diversi che
ai nostri
connazionali.
Il punto a
cui l’autore
vuole giungere è che
la scienza
dell’epoca
era mezzo di diffusione
del razzismo, un tramite
secondo il quale tale
ideologia doveva assumere corporeità e realizzarsi sfogandosi sugli
stranieri, solamente per
salvaguardare la purezza di un singolo popolo
a scapito degli altri.
Inoltre, Barbujani effettua un interessante paragone tra le
singole razze
umane e
quelle animali. Perché attribuire una
categoria per
esempio ad
un cane, ad un gatto,
ad un cavallo, e non
classificare gli uomini?
La soluzione a tale quesito è semplice: il concetto di razza, così come tutte le sfaccettature che implica, è un mero costrutto artificiale,
che non è presente nel
resto delle forme di vita. Come sosteneva l’illustre Charles Darwin,
nessuna specie è innata
e non esiste alcuna razza che non sia inventata
dall’uomo stesso. Di
conseguenza, la conclusione moderna a cui arriva Barbujani, l’unica
accettabile dal punto di
vista logico e scientificamente provata, è che
non esistono razze,
bensì sfumature e l’uomo è accomunato da un
singolo tratto universale: l’essere umano è, in
quanto tale, diverso e al
contempo uguale ai singoli individui del suo
stesso gruppo.
Andrea Farina, Matilde Mezzadri, Marco Maccanti