L
a dipendenza dai
videogiochi è
una malattia mentale”
dice oggi l’organizzazione mondiale della
sanità, mentre fino al
4 gennaio 2018 non
era stato ancora provato che la dipendenza
da videogiochi potesse
essere realmente una
patologia. Certo, rispetto a paesi più dediti alla tecnologia, come quelli asiatici, in
particolar modo Cina,
Giappone e Corea, l’Italia non ha un alto
tasso di utenti dipendenti dai videogiochi.
Alcune statistiche dicono che il 55% dei
ragazzi e il 15% delle
ragazze sotto i 15 anni
passano già due ore
davanti alla console. È
dimostrato però che i
videogiochi hanno anche aspetti positivi,
sono strumenti di terapia per l’autismo e
nell’attività educativa,
alcuni autistici riescono ad usare, come
mezzo di espressione
e supporto, il computer. Ci sono anche giovani i quali sostengono
i videogiochi, come un
vero e proprio impegno, a partire da chi
ne fa uso per svago
personale, fino a chi,
su piattaforme sociali
specifiche, come Youtube, lo presenta come un lavoro. I cosiddetti “gamer” hanno
fatto dei videogiochi
una fortuna, c’è chi è
pagato per allenare e
chi per giocare. Chi
viene pagato per giocare è considerato
“giocatore competitivo”, partecipa a tornei
anche con montepremi
molto alti e viene pagato da una vera e
propria azienda che lo
assume. I “gamer” sono però famosi perché, quando giocano,
trasmettono tutto in
diretta su piattaforme
digitali come Youtube
e Twitch, ottenendo
anche più di 100.000
spettatori simultanei.
Il Comitato Olimpico
Internazionale riconosce i videogiochi come
uno sport al pari di
quelli tradizionali. L’attività su console o su
schermo non annulla
quella fisica, com’è
evidente nei videogiochi, che comprendono
il movimento del corpo, che vertono sulla
danza o sullo sport virtuale stesso. Due opinioni diverse dividono
la popolazione mondiale, i videogiochi sono uno sport o no? Alcuni dicono di sì, altri
di no, voi da quale
parte state?
Marchini Elisa, Genesini, Asia, Marchi Oliviero