Levi non descrive la spinta alla solidarietà e all’aiuto reciproco da parte degli internati, ma piuttosto presenta la vita del campo come principio per cui alla morte di un compagno corrisponde una speranza di salvezza in più per se stessi. La cosa che fa più rabbia non è la ferocia , ma le condizioni in cui versavano i prigionieri ridotti alla fame, senza capelli, privati dei propri cari e dei propri effetti personali.
di Lorenzo Mancini (classe 2^D) – Primo Michele Levi (nato a Torino nel 1919 e morto a Torino nel 1987) pubblicò nel 1986, un anno prima del suo suicidio, il suo ultimo lavoro “ I sommersi e i salvati”. In questo romanzo Levi descrive la tragedia dei lager nazisti, il ruolo delle vittime e degli aguzzini all’interno dei campi e l’importanza della testimonianza e il rischio che la memoria della persecuzione venga dimenticata con leggerezza. Nel primo capitolo (La memoria dell’offesa) Levi mette in discussione la mente umana , perché viene implicitamente condizionata da ciò che avviene. Molto spazio è dedicato alla descrizione della zona grigia, il campo di sterminio stesso , e della sua complicata schematizzazione, in quanto c’erano ebrei impiegati nella manutenzione delle camere a gas (Sonderkommandos) e prigionieri privilegiati impiegati nel mantenere ordine nel campo. In poche parole l’essere umano era in una condizione di complicità con i suoi stessi carnefici . Tutto rientrava nei piani di Hitler. La forza di questo libro è il coraggio di raccontare l’animo umano in una situazione inedita nella storia come quella del campo di sterminio.