di Davide Bassignana, Alice Pranzo, Alice Tanzarella
Disegno di Giorgia Lanzilao
Quest’oggi, ormai in tutto il mondo, si parla di “globalizzazione”, un termine forse poco usato nel linguaggio comune, ma che designa un pezzo importante nel grande puzzle della nostra quotidianità, che da questo fenomeno viene fortemente trasformata e influenzata. Chi di noi, infatti, ritiene di poter vivere senza uno smartphone, senza l’accesso ad Internet o senza poter fare acquisti su Amazone? Queste azioni, divenute ormai banali e alla portata di tutti, sono conseguenze dell’accrescersi della globalizzazione su scala mondiale. Il fenomeno della globalizzazione nasce con la seconda rivoluzione industriale e comprende significativi cambiamenti nella relazione economica e sociale tra persone, aziende ed istituzioni, poiché consiste nella connessione tra usi, costumi, informazioni, mercati e produzioni. Tutti noi, chi più chi meno siamo parte di questo processo che vede l’accorciamento delle distanze e la standardizzazione di stili di vita, insieme ad una presenza sempre più incidente di alcuni soggetti economici. Il primo a parlare di “villaggio globale” fu il sociologo canadese Marshall McLuhan nel 1964, il quale nel suo saggio “Gli strumenti del comunicare” usa questa metafora con lo scopo di identificare il mondo in un unico insieme grazie a nuovi mezzi di comunicazione di massa. Tuttavia non è tutto oro quel che luccica! Infatti, a fronte dei succitati e indiscutibili vantaggi, negli ultimi decenni, con l’avvento delle tecnologie emergenti e l’affermarsi del paradigma di industria 4.0, la globalizzazione ha assunto anche risvolti negativi, legati, in particolar modo, al sistema delle multinazionali, imprese leader di settore (si pensi ad Apple, Nestlè, Nike) che operano sui mercati internazionali attraverso impianti produttivi situati in diversi paesi. Questa articolazione “multilocalizzata” risponde alla logica della massimizzazione dei profitti, il che ha portato molti economisti a definire questa tipologia di imprese “industrie sporche”. Ed invero, spesso tali aziende presentano un alto consumo energetico o un alto rischio per l’ecologia dei paesi in cui hanno luogo le fasi produttive, fanno ricorso al cosiddetto Land Grabbing, fenomeno attraverso il quale le aziende si “accaparrano terreni” a basso costo, con la complicità dei governi e delle corrotte autorità locali, contribuiscono ad acuire la povertà e l’arretratezza dei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo, dal momento che l’utile ricavato non viene reinvestito per creare ricchezza locale. Questa situazione non ha lasciato indifferente la comunità internazionale, la quale, nell’Agenda 2030, attraverso i suoi 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile, propone tanto ai governi mondiali quanto al singolo cittadino un impegno comune: solo grazie al coinvolgimento e allo sforzo di tutti e di ciascuno sarà possibile coniugare le ragioni della crescita economica con la lotta alla povertà e alle diseguaglianze e costruire un mondo sempre più sviluppato ma sempre più sostenibile.