a cura della classe 2^ I
Il sonetto si ispira al Canto XXVI dell’Inferno di Dante, dove il Sommo e Virgilio incontrano nell’ottavo girone, quello dei fraudolenti, le anime di Ulisse e Diomede.
Ulisse e Diomede sono stati valorosi guerrieri greci ma si sono macchiati della colpa di frode per avere usato in vita l’arte dell’inganno.
Dante non ritiene gravissima la pratica di utilizzare la parola per imbrogliare qualcuno e trarne vantaggio, comunque pensa che la frode sia disdicevole e vada condannata.
Nel sonetto “DomanDante” viene posta la domanda se sia giusto neutralizzare l’abilità del nemico mediante la falsità dell’eloquio e addirittura arrivare ad ucciderlo a tradimento dopo averlo raggirato a dovere.
Il sonetto di 19 versi in terza rima dantesca, fatta eccezione per l’undicesimo che risulta sciolto vede due antagonisti a confronto.
In realtà tutto si gioca sul comportamento del personaggio che si finge propenso all’alleanza con il nemico, presumibilmente perché esso si ritiene più abile con la parola che con la spada.
Nei primi 12 versi il testo tratta del raggiro verbale operato ai danni dell’avversario, nei rimanenti 7 versi la frode si completa con l’omicidio vile del nemico, colpito alla schiena di sorpresa.
La domanda non ha risposta nel sonetto e invita il lettore alla riflessione tematica.
E’ giusto l’uomo il quale rechi danno
del pari d’un serpente linguacciuto
godendo di vilissimo l’inganno
frodando con piacere compiaciuto
il classico nemico d’altra parte
di modo che sia esso già battuto
dal retore maestro di tal arte
capace di convincere l’illuso
d’usare non la pratica di Marte
col fido che con lui si sia profuso
a dare bon consiglio d’alleanza
lasciando la baldanza priva d’uso
poi possa fiero mettere per terra
l’avverso prontamente raggirato
non tanto con la spada che si sferra
ma grazie a l’eloquenza del parlato
colpendone la schiena con la lama
che fenda l’imprudenza del costato
vincendo la tenzone con la trama?
Totale Visite:
686